‘U sposaliziu sicilianu. Il corredo della sposa

Il corredo della sposa - Mario MichelettiQuest’estate, rovistando in un cassetto do scagnu, la scrivania di lavoro di mio nonno, ho ritrovato, casualmente, la storia della mia famiglia, conservata, alla rinfusa, in antichi documenti, fotografie, lettere, cartoline. E dentro una busta, ingiallita dal tempo, piena di vecchie carte, atti di vendita, donazioni, contratti, rogiti notarili, mi ha colpito un “Contratto di matrimonio” in cui, con tanto di carta bollata e alla presenza del notaio, i miei nonni, Michelangelo e Agata, si promettevano amore eterno, e i loro genitori, di comune accordo, stabilivano la dote per i loro figli.

Dopo l’elenco dei beni immobili e mobili, regalati alla coppia, la mamma di Agata, Domenica, “donna di casa”, dichiarava di dare alla figlia “un corredo di biancheria alla ragione del sedici, secondo il loro stato e costume di questo paese, oggetti mobili, mobilia, oggetti d’oro, due canterani con specchi e relative balate di marmo, del valore in tutto di lire mille, per i quali oggetti si conviene che la stima non produce vendita fatta allo sposo e la proprietà rimane alla sposa e in caso di restituzione, lo sposo o suoi non saranno tenuti che a restituire gli oggetti stessi e nello stato in cui si troveranno, e col patto che detti oggetti si avranno per ricevuti ed entrati nella casa coniugale con il seguente matrimonio. Valore totale della dote della futura sposa lire Seimila”.

Come in un film, la parola corredo mi ha riportato indietro nel tempo, in un’epoca che non mi è appartenuta, ma che avevo appreso e gustato, durante la mia giovinezza, dai racconti dei miei nonni, ascoltati nelle lunghe sere d’estate, davanti l’uscio della loro vetusta casa...
E, come in un flash back, risento ancora la voce dell’indimenticabile nonna Agata… ‘A ddi tempi… il corredo era una cosa fondamentale per una ragazza: la gente era triste quando nasceva una figlia femmina perché pensava a quanto le sarebbe costata la dote ed il corredo. C’è un vecchio adagio siciliano che recita: “È sapurita, ma unn’avi li cosi di intra”, cioè, “È carina ma non ha le cose di dentro”. Il che non significava che la ragazza in questione avesse qualche problema agli organi vitali interni, ma semplicemente che era povera e non aveva la possibilità di “farsi” il corredo.

Per le ragazze che non continuavano gli studi dopo le elementari (la quasi totalità), il corredo era una cosa fondamentale: verso i 6/7 anni, se non prima, alle bambine veniva regalato un tulareddu, un piccolo telaio da ricamo, perché, giocando, imparassero a ricamare. Finita la scuola elementare, le mamme compravano alle loro ragazze stoffa (lino o tela) e materiale da ricamo e insegnavano loro a prepararsi un bel corredo: questo sarebbe stato il loro impegno principale fino a quando (generalmente molto presto) non fosse arrivato un “buon partito”, un giovane spasimante, che le avesse portate all’altare. Venivano ricamate e confezionate, lenzuola, servizi da tavola, asciugamani, biancheria personale, tende, copriletti, ecc. Le famiglie più facoltose approntavano un corredo da 16 o 12 (numero di esemplari per ogni capo), gli altri si accontentavano di corredi da 6 o anche meno.

Appena terminati, i vari capi non venivano né lavati né stirati, ma erano conservati allo stato naturale in una cassapanca o in un baule che per anni sarebbe stato aperto solo per aggiungervi altra roba; se la ragazza fosse rimasta zitella sarebbero rimasti lì per tutta la sua vita.
Quando invece si presentava il buon partito e c’era un fidanzamento ufficiale, la mamma ospitava a pranzo i consuoceri e, dopo il caffè, invitava le donne a dare un’occhiatina al corredo, chissà mancava qualcosa. Così la cassapanca veniva aperta mettendo alla luce tutti quei tesori, ingialliti dal tempo, che venivano esaminati, ad uno ad uno, tra esclamazioni di meraviglia e di compiacimento.

Poche settimane prima delle nozze c’era la cerimonia più importante: “‘a lavata” del corredo. La padrona di casa approntava nel cortile (in alcuni paesi anche sulla strada, davanti alla porta), delle “pile”, tinozze di legno dotate di un asse scanalato per fare il bucato, invitava amici e parenti (soprattutto le ragazze), e tutti insieme procedevano a lavare il corredo.

Spesso le macchie gialle provocate dal tempo non andavano via al primo tentativo, allora i capi venivano candeggiati “a lu suli e a lu sirenu‘, cioé venivano stesi, senza risciacquo, su dei fili e lasciati per almeno 24 ore esposti all’azione del sole e dell’umidità notturna, fino a che non diventavano candidi.

A questo punto venivano risciacquati e stesi su delle “cordine” approntate sul cortile interno o sulla strada parallelamente al muro della casa o, se si avevano dei balconi, tra un balcone e l’altro attraverso la stradina. Le lavandaie improvvisate lavoravano tutto il giorno e, al tramonto, vuotavano le pile sul selciato della strada creando un vero e proprio torrentello di acqua saponata al centro della strada.

Al rientro dal lavoro, dopo una dura giornata passata nei campi della Piana di Catania, gli uomini si sedevano davanti alla porta di casa e, allegramente, raccontavano storie agreste e suonavano la chitarra, la fisarmonica o il “marranzano”, lo scacciapensieri, e la padrona di casa offriva rosolio fatto in casa e “ciciri e favi caliati”, ceci e fave tostate. Spesso in queste occasioni nascevano nuove simpatie e si buttavano le basi per futuri fidanzamenti. Più in là, nel dopoguerra, gli strumenti tradizionali vennero soppiantati dal radiogrammofono e i futuri sposi e i loro amici ballarono sulla musica martellante degli “urlatori”. La notte, le ragazze che abitavano lontano, restavano a dormire nella casa della futura sposa, tutte insieme, su materassi buttati per terra e ovviamente passavano la notte a ridere, spettegolare e raccontare barzellette spesso ingenuamente osé, una specie di “Pigiama Party” d’altri tempi. Quando, finalmente, il corredo era asciutto e stirato, la padrona di casa lo esponeva nella stanza più rappresentativa della casa, tutti andavano ad ammirarlo e spesso approfittavano della visita per portare il regalo di nozze.

Angelo Battiato

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