Tra "Cronica" e diceria il linguaggio sale sulle scene.

LA stagione del Camera Teatro Studio di Catania si inaugura con la convincente piece di Nino Romeo, nei panni anche di regista. Sopra le righe la prova dell'inetrprete Vincenzo Fiorito.

L’impianto
scenico è metafisico, quasi un frammento, una memoria da De Chirico - sedia,
manichini, separé – meticolosamente rarefatto. Uno spazio spoglio ma
densamente vissuto, limbo in cui si muove inseguendo ritornelli alla radio un
sarto: è la lunga, silenziosa e allusiva sequenza iniziale di “Cronica”, lo
spettacolo di Nino Romeo, qui anche in veste di regista, che ha aperto la
stagione del Camera Teatro Studio di viale Mario Rapisardi. Il sarto-demiurgo
che cuce e scuce destini, è una divinità un po’ prosaica e narcisa (dietro
la quale non è difficile scorgere lo stesso autore) un dispensatore di luci e
di suoni – e la dimensione sonora di “Cronica”, affidata alle musiche di
Franco Lazzaro si delinea fondamentale nella piece – egli introduce, come un
involgarito e involontario Minosse dantesco, lo spettatore/umanità nel
labirinto-linguaggio dell’atto unico, vestendo (letteralmente) i panni dei
sette personaggi, evocati in serrata successione sul palco per ricomporre i
frammenti di un matricidio. A loro – operaio, poliziotto, vicina di casa,
carabiniere, prete, fratello dell’omicida e barbone, è affidato il compito di
fare chiarezza sul “nero” della cronaca. In uno sviluppo drammaturgico che
si fa archeologia sociale il linguaggio dei protagonisti diventa il teatro: il
linguaggio di ognuno di loro, peculiare, diversissimo è la dimensione
dell’individualità; il linguaggio ne detta le deformazioni mentali e
culturali, i luoghi comuni, l’appartenenza lungo tutto il racconto o
“cronica”: insomma il linguaggio è canone. Dall’insieme corale, dalla
moltiplicazione dei punti di vista (pensiamo alla narrativa “teatrale” di un
Lobo Antunes cui “Cronica” può alludere), il loro resoconto dovrebbe dare
un senso, farsi itinerario, costruzione a tanto parlare e alla stessa enormità
del crimine. Ma il linguaggio vale anche come “diceria” ovvero menzogna:
quando lo squillo del telefonino  sottrae
i protagonisti alla ribalta precipitandoli nella loro anonima quotidianità, di
loro non resta più nulla: cioè restano solo parole. La duttilità di un
interprete come Vincenzo Fiorito si declina lungo una intensissima prova a più
voci: quella involgarita dell’operaio, quella sciatta e banale del commissario
di polizia, lo stratificato “cittadino” della vicina di casa, il
burocratichese del carabiniere, il retorico-parodico del prete fino allo
slang-verità del barbone, lo “strascinato” che articola il linguaggio della
pazzia, dunque dell’autentico.  Eppure
di tutto rimane solo la certezza vaga della nuvola di fumo che Lorenzo Sciacca
“u cunnutu” congela sul palco dagli attimi di una mezza sigaretta: un gesto
rivoluzionario, un momento di pirandelliana diversità (si pensi all’atto
liberatorio della “Carriola”). Anche la fuga finale del sarto-demiurgo
testimonia dell’impossibilità di affermare un senso, di coagulare da tutte le
“croniche” il senso della maschera linguistica e umana: la verità non è
data e continua a s/fuggirci; la totalità linguistica non è che una rinnovata
babele, lo spegnimento di ogni illusione dialettica: e la “cronica” resta
deviata mormorazione, sghembo brontolio.

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