Sulla festa grande

Certo, come sarebbe bello, eccitante, gioioso, avere un simulacro, un bel Santo tutto di un pezzo, non importa se in bronzo, in legno o in gesso. Magari tutto inghirlandato, con abiti fastosi, ricoperto di collane e braccialetti in oro zecchino, posto su una bellissima poltrona arricchita da ghirigori e pomelli indorati.

Lo abbiamo visto, tante volte, quel vecchio anacoreta extracomunitario con la lunga barba ben curata e pettinata, con un vistoso cilindro circense posto sul capo, con una serena espressione di magnificenza, autorevolezza e benevolenza. Custodito gelosamente in una nicchia nella lussuosa casa madre del Signore, impenetrabile ed inespugnabile sin anche dai miasmi maleodoranti delle immondizie che liberamente padroneggiano tra le vie della città.

Ci manca, tanto, quell’appassionarci cosi violentemente eccitante, quasi al limite della lacrimazione gioiosa, durante i riti, che si svolgono ogni tre anni, per festeggiare il santo monaco.

Bellissima la festa in suo onore, le celebrazioni, i riti, le cantate e le canzoncine barocche declamate con fervore e devozione. E il carro con il palchetto semovente che trasporta in bell’evidenza il simulacro del divino Antonio, appositamente appesantito e sovraccaricato, sorretto e messo in movimento da corpulenti devoti eterosessuali custodi e mantenitori di arcaiche e tribali tradizioni che si rinnovano immutabili dai tempi dei tempi.

Un fascino ed una commozione indescrivibile assistere allo scorrere tra le via della città, durante i momenti della festa grande, di un’infinita moltitudine di devoti, di uomini qualunque, di ogni ceto e professione, di ogni orientamento ideologico e filosofico, ma di una sola ed inconfondibile razza, quella paesana ed indigena, che ha scelto ed eretto a suo prezioso patrono il divino monaco egiziano.

E poi le candelore o cerei, a seguito della “Vara”, che nel suo celestiale splendore ad architettura fallica simboleggiano il cuore corporativistico della comunità; arricchite da decorazioni e sculture che richiamano i mestieri e le arti del mondo produttivo ed occupazionale della città.

Le “varette” che gironzolano indisturbati nel traffico caotico della città hanno origini antichissime, anticamente erano 8 ora ridotte a 4 a causa dell’eccessiva dispendiosità dei trasportatori, uomini corpulenti e forzuti, che per il trasporto e il “danza mento” o “annacamento” delle pesantissime candelore vengono profumatamente pagati e cibati con prelibatezze locali e vini di pregiata fattura.

Insomma una magnificenza sotto ogni profilo, sia scenografico che liturgico, sia aggregativo che contemplativo, sia apollineo che dionisiaco. Un’esplosione di partecipazione e devozione, una fiammata di pura e vera fede, una sottomissione devozionale assoluta ed unica verso il Santo protettore e le istituzioni laiche e religiose che ne curano e custodiscono le tradizioni e i riti in ogni minimo dettaglio. Il tutto illuminato e cromatizzato da una fantasmagorica scenografia pirotecnica unica nel suo genere per l’elaborazione e la ricercatezza dei “bummi puliti”, “le muschitterie “, “le cannelle”, “le bombe a spacco multiplo” che sono il vanto dei devoti festeggiatori che nell’occasione abbandonano le ataviche parsimonie nello spendere capitali e si abbandonano in forsennate spese per l’acquisto dei fuochi artificiali, al fine di raggiungere il finale più eccellente e scenografico.

E poi i Partiti, che non hanno nulla a che spartire con quelli che padroneggiano in parlamento, ma un’eterea aggregazione sociale, che nel rispetto delle antichissime tradizioni, suddividono la città in quartieri: “panzera”, “sant’angela merici”, “manganeddi” e “madre chiesa” che rappresentano il cuore pulsante della Festa Grande.

Che dire la festa grande del patrono è un momento di altissimo profilo antropologico e culturale oltreché religioso e liturgico, che non ha nulla da invidiare alle antichissime feste tribali delle popolazioni orientali; un altissimo ed elaboratissimo momento di obnubilamento ed insensatezza che riconferma con vigore e vera fede le sciccherie delle inconsulte ed obsolete tradizioni popolari, che, purtroppo, non hanno alcuna attinenza con il mondo moderno ed i nuovi bisogni che esso esprime.

Chissà se un giorno, nella speranza che non sia lontanissimo, si possano festeggiare, con vero ardimento e passione i desideri e le aspettative che affannosamente gli uomini e le donne ricercano nella vita di ogni giorno, e che siano di auspicio ed acclamazione per risollevare le sorti di un’Umanità sempre più maltrattata e mal-Messa.

E perché no, magari con il senso compiuto della ragione e della gioia, solennizzare nella prima decade di agosto, la festa della fratellanza e della gioia, e in altri mesi del calendario la festa della bellezza, la festa della solidarietà tra i popoli, della giustizia sociale, dell’uguaglianza, del buon senso e perché no, a fine anno, un giorno, organizzeremo solenni festeggiamenti con danze e canti e tavole imbandite, nelle piazze più spaziose delle città “la Festa Grande del Buon Governo dei cittadini liberi”.

E la scienza che ce lo suggerisce: “le tradizioni provengono dal passato, ma sono gli uomini del presente a dargli un senso”.

Pasquale Musarra

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