La magia del "Cirque invisible" di Jean Baptiste Thierree e Victoria Chaplin

Eccezionale spettacolo d'apertura per la stagione dello Stabile catanese.

Il solito
vippume istituzional-locale, qualche spruzzata di intellighenzia illuminata,
parecchi volti palesemente liftati; giovani abbastanza; anziane signore – le
più discrete ed eleganti – a sventagliare l’umido sciroccoso, l’occhio al
palco e le orecchie al metronomo dei sussulti del vicino Cibali per l’altro e
assai più prosaico ‘circensem’ calcistico. Questo e altro ad affollare la
liturgia della ‘prima’ dello Stabile etneo che ha accolto “Le cirque
invisible” di e con Victoria Chaplin e Jean-Baptiste Thierrèe: uno
straordinario spettacolo ‘sui generis’, sfuggente a qualsiasi catalogazione,
una wunderkammer comica e surreale, poetica e alogica. Circo magico
dunque quello di questa coppia sulla scena e nella vita: ma non è la magia
dell’illusione piuttosto quella dell’illusione senza tempo, di una
reinterpretazione del teatro in chiave quasi ariostesca, in nome della fantasia
liberatrice. Folgorazioni, invenzioni, colpi di genio, una comicità ossimorica,
paradossale straripante, completa d’espressione gestuale e mimica di livello
assoluto. Lui Jean
Baptiste Thierree mago irriverente e mattacchione – il trucco c’è e spesso
si può vedere – ora creatura-arazzo, ora quadro e uomo-zebra, ora domatore di
pulci e di bolle di sapone, ora burattinaio e burattino ora prestigiatore folle,
sempre un passo al di là della logica e di tutte le aspettative.

Lei,
un’agilità sbalorditiva celata lungo un esile corpo di bimba al centro di una
cascata di lunghissimi capelli, innesca attraverso le sue ‘figure’ una
imprevedibile dinamica del mutamento: così un vulcano diventa conchiglia,
sinuosa medusa; un serpente può mutarsi in insetto o ippogrifo lungo le
moltissime suggestioni zoomorfe - quasi un bestiario borgesiano – che, con la
fascinazione delle luci e lo splendore dei costumi, aprono nel “cirque
invisible” influenze kabuki e momenti di rarefazione zen. E così se un lungo
drappo rosso può evocare una ferita mortale, un ombrello può diventare
corazza, un albero essere improvvisamente dragone o maschera spaventosa – lo
spettacolo è stratificato di citazioni mitiche e favolistiche –
all’improvviso la scena può animarsi di conigli veri (ah, che personaggio il
bianco Jaen-Luis…) e di fiori giganti; di una confraternita di oche canterine
e di tortore svolazzanti.

Dai ricami
leggeri del suo corpo sulla corda tesa – un candido fiore di loto che
volteggia - fino alla rarefatta sequenza della donna-bicchiere, Veronica Chaplin
distilla gesti e suoni come cristalli che s’incidono nel silenzio sbalordito
del teatro. Nel finale che non è un finale piuttosto un caleidoscopio infinito
di invenzioni e di gag di rimandi e di autocitazioni, di siparietti e di
sfolgoranti travestimenti, la ‘magia’ di questo “Cirque invisible” non
svanisce: si fa colore, meraviglia, onda morbida sull’ovazione che sale dalla
platea.

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