Lotta alla mafia, se Maroni scioglie il paese di La Russa
Eccolo lì, profilarsi veloce sul ring mediatico l’ennesimo cruento round del match permanente traRoberto Maroni e Ignazio La Russa. Un pasticciaccio brutto: lo scioglimento per infiltrazioni mafiose, più che possibile, del consiglio comunale di Paternò.
Cittadina catanese abitata da circa 50 mila persone, Paternò è insieme con Milano la patria politica del titolare della Difesa. Qui Ignazio La Russa è nato. Qui è nato il fratello, l’europarlamentare Romano. E qui ancora (rim)piangono il patriarca, Antonino, segretario fascista nel 1942, fondatore della prima sezione del Msi in Sicilia e senatore per un altro ventennio, quello che va dal 1972 al 1992. Lì vicino, poi, il ministro trascorre le vacanze. Per la precisione a Ragalna, sull’Etna, dove nel giugno 2003, ad amicizia ancora intatta, favorì la nomina ad assessore di Daniela Santanchè, passata alla cronaca paesana per un unico evento mondano: il “Paese delle stelle”.
Carlo Puca e Domenico Calabrò
Insomma, proprio nel paese dei La Russa, dove Ignazio è leader indiscusso, amato e lodato pure dagli sconosciuti, Maroni potrebbe far detonare una piccola bomba atomica. Ad indagare sulla presunta infiltrazione mafiosa di Paternò furono dapprima i carabinieri. I benemeriti riferiscono in un’aula di tribunale già il 3 settembre 2007, ai tempi del governo Prodi, cioè quando La Russa non era ancora alla Difesa e dunque ministro delegato all’Arma.
Secondo i carabinieri a Paternò si registra “il superamento della tradizionale figura del politico o dell’imprenditore colluso, ma allo stesso tempo estraneo”. Per loro, invece, “col chiaro scopo di superare ogni compiacente mediazione, la mafia aveva occupato direttamente una poltrona“. Il 28 novembre 2008, insieme con altre 23 persone, viene arrestato l’assessore ai Servizi sociali Carmelo Frisenna, il candidato più votato al consiglio comunale nelle elezioni del maggio 2007. Di conseguenza arriva in municipio la cosiddetta commissione d’accesso interforze, incaricata dal ministero dell’Interno di accertare (su richiesta dell’ormai ex prefetto di Catania Giovanni Finazzo) i termini della infiltrazione mafiosa. La commissione ha prodotto una relazione, letta da Panorama, che è stata trasmessa dalla prefettura a Maroni nella prima settimana di agosto, dopo quattro mesi di verifica degli atti. I commissari sono partiti dall’arresto di Frisenna, indicato nella relazione come elemento organico alla cosca Santapaola-Ercolano, per giungere alle insistenti “raccomandazioni” che per conto del clan sarebbero state rivolte ai vari uffici e allo stesso sindaco. Fino a citare ulteriori episodi: dalle famiglie mafiose che ricevono contributi dal comune all’ex vigile urbano sospeso, reintegrato e infine condannato per mafia, che per premio (si fa per dire) ottiene il trasferimento ai servizi sociali. Con ruolo di dirigente. Nell’ordinanza che conferma l’arresto di Frisenna, allegata alla relazione della commissione d’accesso, il giudice per le indagini preliminari di Catania Antonino Fallone scrive: “Non possono non rilevarsi le inquietanti ombre circa la sussistenza di una ‘intesa’ tra gli amministratori del Comune di Paternò e gli esponenti della mafia locale, che perdura tuttora”.
Sussistono, aggiunge, “condizionamenti tali da prendere in seria considerazione lo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso”.
Il gip registra “la totale infedeltà del Frisenna, stabilmente inserito nell’associazione mafiosa”, così da svolgere “la preminente mansione di tutelare gli interessi della “famiglia” all’interno del consiglio comunale di Paternò, gettando inevitabilmente pesanti ombre circa l’operato dell’intera amministrazione, con particolare riferimento al sindaco Giuseppe Failla“ (pronto anche a battaglie eclatatnti, la scorsa estate si fece riprendere in mutande per protestare contro l’emergenza rifiuti) e agli assessori “Antonino Cosentino e Salvatore Torrisi, successivamente diventato assessore provinciale”. Sono tutti uomini del Pdl. E tutti si onorano, pubblicamente e a vario titolo, dell’amicizia di Ignazio La Russa. Non ricambiati, in verità, perché il ministro della Difesa vuol tenersi comprensibilmente alla larga da loro. Un’intercettazione, in particolare, appare emblematica.
Cosa nostra punta al controllo dello smaltimento dei rifiuti e Francesco Amantea, interlocutore dei clan di Paternò, spiega a un imprenditore considerato colluso, Rosario Sinatra, ciò che ha intenzione di dire agli amministratori locali: “Carmelino Frisullo deve essere il nostro portavoce, il mio orecchio e i miei occhi. Voi siete padroni a casa vostra. Ma tutto quello che fate a livello politico e di cui discutete deve passare da me. Perché a Paternò non vi faccio camminare più. Vi potete candidare centomila volte!”.
L’assoluta estraneità personale di La Russa è scontata. Ma la vicenda resta fastidiosa. A cominciare dal fatto che il nullaosta definitivo allo scioglimento del comune dovrebbe arrivare dal Consiglio dei ministri, in cui La Russa ha peso personale, oltre che per la rilevanza del suo ministero. D’altra parte il Viminale sembra deciso.
Negli uffici del ministero dell’Interno sottolineano che la lotta alla mafia si fa anche con severe misure sulle amministrazioni locali. Di destra come di sinistra. In teoria Paternò non potrebbe essere salvata nemmeno dalla nuova legge sulla sicurezza pubblica, datata 15 luglio 2009, che riduce i parametri della “mafiosità” ravvisabile. La stessa legge cui ha fatto seguito il “lodo Fondi”, il comune laziale al quale è stato per ora risparmiato lo scioglimento poiché, secondo la spiegazione di Silvio Berlusconi, “diversi ministri hanno fatto notare come nessun componente della giunta o del consiglio comunale sia stato toccato da un avviso di garanzia“.
Invece a Paternò c’è l’indagato, anzi l’arrestato. E pure tutto il resto.