Morte di un Cigno. Il Bellini di Mimmo Trischitta

Lo scrittore catanese Mimmo Trischitta affida al suo "Autunno a Puteaux" la personalissima rievocazione di Vincenzo Bellini, assediato dalla solitudine, dal ricordo della sua isola luminosa e dall'incalzare impietoso della malattia. Raffinata la regia di Alessandro Di Robilant, convincente la prova degli attori.

“Il
pretesto per Autunno a Puteaux - dice lo scrittore Mimmo Trischitta - è
quello del secondo centenario della nascita del cigno catanese, ma il mio
Bellini non è affatto il personaggio tradizionale, tipico del mito etneo,
piuttosto un individuo che vive l’esperienza tipica di molte persone che per
necessità lasciano la loro terra e si ritrovano lontani e sradicati, anche se (è
il caso del musicista siciliano) si tratta di Parigi, una grande capitale
d’arte di cultura.
Ecco, il Bellini di questo mia opera è quello cui mi sento
più legato”. E’ la cifra esplicita entro cui ricostruire Autunno a
Puteaux,
l’atto unico che, prodotto dalla Provincia Regionale di Catania e
dall’Associazione Città Teatro, ha calcato, dopo il debutto di Catania, i
maggiori teatri dell’intera provincia. La vicenda - articolata in tre
cadenzati microatti, sorta di flash-back, aperti e conclusi dalla scena
dell’agonia del musicista - ricostruisce, nel modo personalissimo e originale
della scrittura drammaturgica di Trischitta, l’ultima fase della vita di
Bellini, contrassegnata sì dal successo dei Puritani ma anche e soprattutto da
una solitudine solo in apparenza alleggerita dall’equivoca coppia che lo
ospita in una villa di Puteaux: Samuel Levys, un facoltoso ebreo che investe per
suo conto nella borsa spagnola e la ballerina Honorine, probabilmente una ex cocotte,
entrambi complici di una torbida storia di finzione e di raggiri che ha come
vittima proprio l’ingenuo Bellini, il lustrino per scarpe di lusso come
amava apostrofarlo il poeta Heine nei salotti parigini. “Con Autunno a
Puteaux
- aggiunge Trischitta - ho voluto cogliere l’uomo solo e infelice,
affrontando la “vita non illustre”, per così dire, di questo celeberrimo
personaggio”. E proprio il lato oscuro della vita segna l’opera di Trischitta che, affinando il taglio asciutto che ha finora distinto il suo
stile, imbastisce un testo privo di patetica tracotanza, contrassegnato anzi
dall’incombere immanente di un destino di perdita e di inevitabile morte mai
sopra le righe, nonostante la facilità con cui la vicenda sarebbe potuta
scivolare nell’ovvio romanticume. La regia, firmata dalla prestigiosa mano di
Alessandro Di Robilant - quello de Il giudice ragazzino e de I
fetentoni
- ha inoltre suggerito ad una messa in scena limpida, dettagli
discretissimi ma assai significativi: dall’evocativo limone che il giovane
Vincenzo stringe, struggente richiamo agli affetti di una Catania continuamente
vagheggiata, al suggestivo, quasi “cecoviano” impianto scenico - un
metaforico tappeto di foglie cadute su un bianco lenzuolo sgualcito - firmato da
Giuseppe Andolfo, che ha pure curato i costumi. Nei panni del giovane musicista,
Giovanni Carta, giovane attore palermitano, riesce a sprigionare quella carica
insieme sensuale e tragica propria di Bellini, ora spontaneo ed intemperante ora
ossessionato da un amore infelice e sopratutto dalla musica - con la quale
riesce a “sentire Dio” - sempre devastato dalla malattia. Donatella
Finocchiaro è invece l’espressiva Honorine, mentre il messinese Giovanni
Moschella ha potentemente reso un Samuel Levys cinico e sprezzante, la cui
sinistra grandezza sembra quasi reclamare un posto assoluto all’interno del
dramma. Ad amalgamare uno spettacolo degno,
le immortali arie belliniane, sugello nostalgico e dolente.

GiCo

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