"Guerrin Meschino" maltratta Bufalino ai Mercati Generali

La piece firmata dalla regia di Elio Gimbo è l'ultima proposta di Gesti Contemporanei, il cartellone estivo del Teatro Stabile di Catania.

La memoria e i
fantasmi della memoria; l’identità personale e l’inautentico, la Storia e
le sue oscenità, il non/senso e la ricerca di un significato. Si agita questo e
molto  altro e non sempre in modo
limpido nella rappresentazione che contiene a sua volta l’altra
rappresentazione, più vera, più genuina: quella di “Guerrin Meschino, ovvero
la leggenda dei Pupari Erranti”, con la regia di Elio Gimbo, che Gesti
Contemporanei”, la rassegna estiva dello Stabile, ha accolto nell’ultimo
appuntamento nel verde dei Mercati Generali. Anzi è da questa sola (cioè dalla
finzione romanzesca di Andrea da Barberino) che paradossalmente si manifesta la
verità; la storia, imbastita quella presunta come un ossessionante e vuoto show
televisivo, con tanto di iperlalico conduttore e di istupiditi teledipendenti;
l’altra invero, dello psicolabile - pazzo, escluso, reietto Antonin – non è
affatto fumo dal “manicomio senza mura” del quotidiano rimbambimento, è
piuttosto ricerca di sé e delle origini, proprio come Meschino, il pupo di
latta. In questo sforzo per l’agnizione, “Guerrin Meschino” procede in
forma di bildungsdrama, di ritorno alla sorgente che è pure una discesa agli
inferi della storia contemporanea. A parte una certa forzatura del riferimento
letterario - il Guerrin di Bufalino era “viaggio
d'educazione travestito da fiaba cavalleresca”
in funzione de recupero
fiabesco dell’infanzia, così come in “Ciaciò e i pupi” – e la critica
alla civiltà borghese e capitalistica, politica e globale che lo spettacolo
reca non avrebbe bisogno di così tante mediazioni colte - questo “Guerrin
Meschino” (con la drammaturgia di Salvatore Zinna) si colloca a tratti al
limite delle irriverenti “serate futuriste”, 
sfibrandosi lungo un intreccio labirintico, forse, tra opzioni brechtiane
e densi riferimenti coerografici, eccessivamente simbolizzato. L’attacco
all’arte priva di funzione e di ancoramento sociale - che traspare nella
seconda parte - collima poi con l’affermazione che la menzogna non paga,
piuttosto la passione per la verità: quella, per esempio, che hanno messo i
Napoli – le cui parole  riescono
ad essere davvero “vuci, friscalettu e trumma” - nell’allestire la
“loro” di storia di pupi, tra duelli, fughe, incantamenti e lieti finali.
Vabbè che Bufalino amava, per sua stessa ammissione, le varianti, va benissimo il linciaggio drammaturgico del pensiero unico
(pseudo)culturale, ma la parabola del confronto-scontro tra cultura di massa e
cultura popolare,
l’incompatibilità fra realtà antitetiche
nel
“montaggio di pessimismi” che era stato il libro appare meno
evidente nello spettacolo. La rincorsa spirituale di Guerrin Meschino quasi
frenata dai garbugli di una messa in scena non sempre lineare. E il mondo,
deserta la scena dei pupi, rimane un gran “laberinto”, confuso, di complessa
decifrazione e poco stimolante. A parte le zanzare.

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