"Vita di Micio Tempio" fra eccessi di musical e spizzichi di verità

La bella piece di Filippo Arriva diluita nello spazio abnorme del Cortile Platamone dalla regia di Romano Bernardi ci restituisce un poeta solitario ed escluso. Ma accompagnato da troppi intermezzi musicali. Pregevolissima la prova di tutti gli interpreti. Tuccio Musumeci nei panni del poeta della "Carestia"

Troppo “politically correct”.
In “Vita, miseria e dissolutezza di Micio Tempio poeta” - la piece di
Filippo Arriva che ha chiuso il cartellone dello Stabile etneo – il genius
loci della Civita si restituisce - nel gioco metascenico che connota la
rappresentazione della città sulle basole screpolate del Cortile Platamone –
come un personaggio ombroso e frustrato ma forse escluso. Eppure lungo le arcate
la sua voce rimbomba solitaria e ininterrotta: perché Tempio è attaccato alla
città “come le cozze alla corda”. Anticipando la celebre metafora
verghiana; tra rivoluzione e poesia; tra sogni di giustizia sociale e la
percezione antimanzoniana che la storia la fanno solo i principi, lo spettacolo
allestisce la vita sovversiva del poeta che, sulla sedia della sua “putia”,
rammemora evocandoli i fantasmi lontani del 1798 catanese, restituiti, lungo
alcune suggestive e corali sequenze sceniche dell’ouverture, nella loro
tragica drammaticità: le donne sfinite dai lavori, la teoria degli scaricatori
- il lumpenproletariat della Catania zolfatara - una popolazione in bilico tra
fame, le “vastasate” e la superstizione contro cui Giovanni Gambino, il
parrino giacobino, sorta di teologo della liberazione ante litteram, insieme ai
Rossi, agli Ardizzone, tenta di coniugare il suo magistero universitario con la
denuncia delle speculazioni e della corruzione cittadina. Accanto a Tempio (la
cui esistenziale rarefazione Tuccio Musumeci rende in modo straordinariamente
naturale, così come tutti gli altri interpreti, da Angelo Tosto a Bruno
Torrisi, da Sebastiano Tringali a Margherita Mignemi) c’è 
dunque una Catania “accupata” da una classe politica imbelle,
asserragliata nei privilegi sontuosi dei suoi affari e dei suoi buttaniamenti;
una Catania, soggiogata da un clero dissimulatore ed egoista, che la lingua
amara di Micio Tempio, mutrioso e profeta aggrincato, coi suoi versi
provocatori ed osceni sferza e irride. Le eccezioni del Vescovo Ventimiglia e
del Principe di Biscari, referenti illuminati, ne attestano a maggior ragione lo
status quo. Nonostante il testo di Arriva possieda una raggrumata
dinamicità drammaturgica, la pièce sfora spesso nel musical: gli intermezzi,
pur nella ricercatezza dei movimenti scenici e nella mirabile resa canora,
paiono attenuare il focus polemico del copione in una sarabanda di note e
di colore ‘tipicamente locale’, quasi ricercatamente folklorico, fin troppo
rassicurante insomma, che rimanderebbe – seppure involontariamente – allo
stereotipo della presunta felice schiettezza delle masse diseredate, incrinando
la compattezza della rappresentazione che, per stessa scelta del regista
Bernardi, incombendo “l’abnorme spazialità” del Platamone, doveva
temporalmente allargarsi. Nella sua seconda parte lo spettacolo appare più
compatto, più incalzante, con la spannung della rivolta, del panem della
generosa e tattica distribuzione del principe di Biscari, della fuga dei
“giacobini” e dell’immanente circensem delle celebrazioni agatine,
a sigillare more religione lo scampato pericolo della sommossa, del
cambiamento. Alla fine il progresso, la giustizia la storia stessa, sono
illusione: il ritorno alla realtà del poeta morente, restituisce alla sua
Catania-mondo quella ineluttabilità che Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa,
lo stesso Brancati connoteranno come delùge 
definitivo, avvolto nel perenne presente dell’antistoria.

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