Abito a Genova, con le
finestre che si affacciavano sulla zona rossa e su quella gialla circostante, ho
vissuto da osservatore "esterno" tutto quanto è avvenuto in città,
dato che da tempo non mi riconosco più nelle realtà organizzative della
politica e dei movimenti.
Ma vengo dalle esperienze
politiche della sinistra italiana, soprattutto dalla storia del Pci nelle sue
anime meno ortodosse, e ovviamente sentivo una forte vicinanza ai temi delle
manifestazioni anti-globalizzazione, alle quali ho partecipato con le componenti
nonviolente. Tuttavia questo sguardo esterno forse mi ha concesso un approccio
privilegiato. A partire da questo punto di vista, vorrei esporre tre primi
elementi di riflessione su quanto avvenuto in occasione del vertice G8.
1.
L'operazione mediatica
Di fronte al crescere di un movimento di massa anti-globalizzazione, le
scelte dei centri operativi dell'establishment "mondiale" (chiamiamoli
così, senza dietrologie, ma senza fingersi sprovveduti) sono state articolate
in due tappe. Prima tappa: fomentare sui media l'allarme "terrorismo
internazionale" con una campagna propagandistica iniziata almeno un mese
prima del vertice G8. In questo modo si gettava un'ombra sui contestatori,
assimilandoli ai terroristi di Bin Laden o ai centri più o meno occulti
dell'eversione internazionale. Era anche il pretesto per procedere a una
militarizzazione senza precedenti del territorio genovese. Tombini piombati per
evitare presunti attacchi dalle fogne, telecamere in tutti gli angoli, afflusso
di forze dell'ordine in proporzioni gigantesche, barriere metalliche (e poi
enormi container) che trasformavano la cosiddetta zona rossa in una fortezza e i
quartieri limitrofi in prigioni, di conseguenza sospensione di molti diritti
civili per i cittadini. Questa militarizzazione ha provocato un vero e proprio
esodo dalla città, la chiusura di quasi tutti i negozi (sollecitata
esplicitamente dalla Digos) e la trasformazione di Genova in una città
fantasma. Se la città fosse stata viva, abitata, libera, nei giorni del G8 le
devastazioni teppistiche si sarebbero ridotte almeno della metà, perché una
presenza degli abitanti avrebbe fatto da cuscinetto e da demotivazione agli atti
più esasperati. Invece le "tute nere" hanno avuto a disposizione una
città abbandonata e indifesa (dato che lo schieramento militare della polizia
proteggeva solo la fortezza dei principi e aveva lasciato a se stessa il resto
della città).
Ecco che tutto
era pronto per lo scattare della seconda tappa della grande operazione mediatica.
Dislocata la forza pubblica solo intorno alla zona rossa, si è deliberatamente
dato via libera all'antica attitudine antidemocratica e violenta che cova nelle
forze dell'ordine italiane, e che si sono sentite tutelate e incoraggiate da un
governo in cui ha posizioni di rilievo il partito di Gianfranco Fini. Non si è
scelto di usare tutti i mezzi possibili per contenere il conflitto (inevitabile)
con una parte dei manifestanti, ma viceversa si è dato l'ordine di mantenere un
atteggiamento da "muro contro muro", legittimando l'uso delle armi,
coprendo comportamenti ultraviolenti (una volta ci si indignava quando i
candelotti lacrimogeni venivano lanciati ad altezza d'uomo, a Genova questo
pericolosissimo modo di aggredire i manifestanti è stato la regola e non
l'eccezione), infine attaccando con brutalità anche gli spezzoni pacifici delle
manifestazioni e concludendo il tutto con retate e spedizioni punitive degne di
un regime dittatoriale. Il compito delle forze dell'ordine dovrebbe essere,
appunto, quello di mantenere l'ordine: a Genova è stato l'esatto opposto, non
si è evitato che la città precipitasse nel caos, perché in realtà il solo
scopo era di tenere i contestatori lontani dal centro cittadino e utilizzare
ogni chance per criminalizzare la protesta.
La seconda tappa
dell'operazione mediatica, infatti, aveva un obiettivo preciso: utilizzare le
prevedibilissime violenze per screditare il movimento nel suo complesso,
associando in questo caso i manifestanti anti-global alla componente minoritaria
del black blok.
2. Le
responsabilità
Va detto che
l'operazione mediatica è in gran parte riuscita. Tuttavia non ha
"stravinto", perché comunque si è avuto l'effetto boomerang di
accentuare il discredito complessivo del vertice G8 ed enfatizzare la portata
della contestazione ad esso (nella nostra società una vetrina infranta fa più
notizia di qualsiasi oceanica manifestazione pacifica). Però nemmeno il
movimento anti-global ha vinto (ammesso che valga questo criterio
bellico-sportivo del "vincitori e vinti"). Le violenze, ritengo, erano
inevitabili, come hanno dimostrato tutti i vertici mondiali recenti, ma a Genova
c'è stato un surplus di "apocalisse" che poteva essere evitato. Date
per scontate le scelte ciniche e quindi le responsabilità del governo
Berlusconi (e degli apparati mondiali che lo hanno sostenuto in questa
occasione), la responsabilità maggiore per la deriva presa dagli eventi, a mio
parere, pesa sulla sinistra italiana (quella riformista, moderata o
socialdemocratica che ovunque in Europa mantiene una sua solidità per quanto
ambigua e omologata). Mai come in questo momento l'Italia è l'unico paese
europeo senza una forza coesa della sinistra, se si pensa che il partito dei Ds
è allo sbando e che la demolizione della storia e della forza della sinistra
stessa è al suo massimo storico. La destra ha fatto il suo mestiere, in
occasione del G8, la sinistra no, per il semplice fatto che sembra non esistere.
Mancava al movimento anti-global un interlocutore democratico, magari anche
critico e dissenziente dai contenuti del movimento, ma rispettoso delle proteste
e impegnato a tutelare libertà e diritti fondamentali.
Le responsabilità
vanno però individuate anche nello schieramento anti-global, che pure aveva di
fronte compiti difficilissimi. Vittorio Agnoletto si è dimostrato un ottimo
uomo-immagine per il movimento, abile nella parola, prestigioso, senza il
"look da centro sociale" che irrita le anime belle e con un retroterra
cattolico che ha facilitato l'incontro con aree religiose importanti. Ma di cosa
Agnoletto è stato l'immagine? Di quale leadership reale e di quale realtà
organizzativa e operativa? Purtroppo, di un coacervo di forze che hanno preso la
guida del movimento e che sono in gran parte caratterizzate da antichi
superstiti della politica passata: ex-settantasettini,
dirigenti di Rifondazione, capi del sindacalismo autonomo e
professionisti della politica filodiessini. Il movimento nuovo e variegato dei
giovani che hanno partecipato al Genoa Social Forum non si è ancora dotato di
una coerenza e di un proprio riferimento. Il "popolo di Seattle",
dunque, almeno in Italia, non è riuscito a darsi un'identità e quindi una
leadership. In questo caso, poi, parlare di leadership non significa
scimmiottare la forma-partito o auspicare dei "capi", dato che il
movimento ha una forte aspirazione anti-autoritaria. Il movimento ha dimostrato
di avere un'anima (le elaborazioni del Gsf sono di alto livello e non si
limitano alla generica opposizione al G8, nonostante la colpevole ignoranza in
proposito anche di molti osservatori acuti che continuano a definire il
movimento come solo protestatario), un corpo (le centinaia di migliaia di
persone venute a Genova), ma non una testa all'altezza della situazione.
Ma proprio questa
assenza di "testa", o la presenza di una "testa" inadeguata
e vecchia, sta alla base degli aspetti negativi e dei limiti delle proteste di
Genova. Di più: chi ha funzionato come "testa" del movimento ha
pesanti responsabilità verso i cinquecento feriti e i troppi danneggiati che le
battaglie di Genova hanno lasciato sul campo.
Non si possono
organizzare cortei in una città militarizzata senza preparare un servizio
d'ordine, non si può scegliere di fare una sfilata di duecentomila persone
quando il clima è incandescente e tutte le condizioni sono sfavorevoli: perché,
ad esempio, sabato 21 luglio si è voluto a tutti i costi un corteo e non un più
prudente sit-in, invadendo di folla oceanica una piazza (molto più
controllabile e difendibile) invece di affrontare chilometri e chilometri di
percorso ad alto rischio?
In sostanza,
migliaia e migliaia di giovani, oggettivamente inesperti e senza la memoria di
cosa significa la "piazza" quando la situazione è talmente tesa, sono
stati mandati come carne da macello a farsi massacrare dalla polizia,
strumentalizzare dai teppisti e sconvolgere da un'esperienza brutale che non
dimenticheranno facilmente. Mi preoccupa pensare quanti di quei giovani si
terranno alla larga da manifestazioni nei prossimi tempi, o forse per sempre. E
quanti, viceversa, messi a confronto con una violenza della polizia (e del
"potere") che forse non immaginavano nemmeno possibile si faranno
sedurre dall'ipotesi dello scontro frontale. Ho fiducia, però, che le
convinzioni - per quanto confuse - che hanno spinto a Genova centinaia di
migliaia di persone siano talmente salde da superare anche lo shock di questa
vicenda, e anzi da sentir rafforzati i propri convincimenti "anti-globalizzazione".
3. I capri
espiatori
Il mondo dei
media e il "senso comune" hanno trovato un nuovo capro espiatorio: le
tute nere, i black blok, gli "anarchici". Grottesco, in questo senso,
l'allestimento scenografico della Questura di Genova, che per la conferenza
stampa seguita al pestaggio notturno nelle scuole genovesi ha posto in evidenza,
sopra mazze e bastoni (e accanto a fazzoletti di carta e coltellini
tagliaunghie) una copia della rivista "A" degli anarchici italiani,
giornale prestigioso che tutto fa meno che organizzare squadre di vandali. Ma il
segnale era chiaro: non tanto una nuova versione dei teppisti da stadio o dei
provocatori d'altri tempi (che non sono mai mancati nelle manifestazioni più
"a rischio" del passato), ma un soggetto criminale con l'etichetta
"anarchica". E' troppo comodo, sia per i nemici del movimento sia per
i suoi protagonisti, prendersela con i "cattivi" in tuta nera. Questi
esistono, non solo in Italia, non solo nelle manifestazioni anti-G8. Sono una
presenza endemica nelle società odierne, e il saccheggio o la distruzione di
negozi non nasce a Genova nel luglio 2001.
Ci sono due
ordini di ragionamenti, però, da fare anche a proposito del black blok e della
sua area di consenso esterna (uso il concetto di black blok in senso allargato a
tutti coloro che hanno scelto il conflitto violento a Genova e in occasioni
analoghe). Innanzitutto, è democratica, sana e illuminata una cultura che non
si interroga sul perché esistano bande di giovani che scelgono di contrapporsi
all'esistente impugnando bastoni e distruggendo beni privati? Cosa spinge a un
odio così forte verso le "istituzioni" e la proprietà privata degli
individui che sono disposti (proprio come i ragazzi palestinesi dell'Intifada) a
rischiare la propria vita per combattere polizia, carabinieri e
"ricchi"? Si pensa davvero che basta demonizzarli per risolvere il
problema, oppure che tutto si riduca a fare delle retate e riempire le galere?
Sarebbe forse
meglio che tutti, anche a destra, si facessero queste domande e mettessero in
discussione se stessi, visto che si identificano con una società del libero
mercato che (nelle parole di Berlusconi a chiusura del G8) appare loro come il
paradiso che tutto offre, tutto regala e dà solo libertà e benessere. O
riteniamo che i black blok siano solo incarnazioni del Male (tentazione che è
ricorrente, su ogni versante politico), e allora occorrono nuove crociate e lo
scorrere del sangue, oppure dobbiamo fare i conti anche con il disagio e la
"critica" che persino un ragazzo armato di bastone, pietra o estintore
esprime.
In secondo luogo,
e questo riguarda il Gsf e il movimento tutto, perché chiudere gli occhi di
fronte al fatto che la reazione violenta contro la polizia e persino alcuni atti
vandalici hanno avuto a Genova un consenso attivo "di massa", non
limitabile alle cinquecento tute nere organizzate e determinate? Nel lontano
1977, quando gli autonomi assaltavano le armerie o facevano "espropri
proletari" durante i cortei non tutte le persone partecipavano, ma molti
apprezzavano queste azioni e molti vi si accodavano. C'è una seduzione dello
scontro che si è ripresentata anche a Genova, soprattutto nelle battaglie di
sabato 21 luglio, dopo la morte del giovane Carlo Giuliani e dopo un
atteggiamento esplicitamente aggressivo delle "forze dell'ordine". E'
cecità non vedere che a combattere con qualsiasi oggetto disponibile erano ben
più di cinquecento tute nere, ma una moltitudine infuriata e "di
massa". Anche questo va capito, non rimosso (o demonizzato, come fanno i
benpensanti che ne approfittano per dire che "erano tutti violenti").
Mi spingo oltre.
Persino i black blok non sono una semplice riproposizione della violenza di
piazza del passato, nemmeno di quella del '77 che ho prima evocato. Nonostante
l'asprezza dello scontro, non è apparsa una sola pistola tra i manifestanti.
Era morto anche "uno di loro", e negli anni Settanta questo sarebbe
stato sufficiente a scatenare reazioni allo stesso livello, armato, di scontro.
Invece anche i black blok sono un fenomeno nuovo. Il loro obiettivo non è
uccidere l'avversario, ma attaccare simboli e beni dell'avversario (del resto,
viviamo nella società dei media e dell'immagine). Le distruzioni sono state
mirate: soprattutto banche, negozi di grandi catene multinazionali, auto
costose. Con il degenerare degli scontri, poi, il vandalismo si è esteso senza
limiti, ma gli obiettivi principali restavano quelli. E sono proprio le tute
nere che hanno evitato più di altri lo scontro fisico diretto con la polizia.
Certo, questo facilita il sospetto che vi fossero connivenze con segmenti delle
stesse autorità, dato che entrambi (autorità e tute nere) avevano l'identico
scopo: creare il maggior caos possibile. Tuttavia mi interessa analizzare i
comportamenti originali rispetto alla violenza del passato. E questo dovrebbe
interessare tutti, in primo luogo il movimento anti-globalizzazione, per capire
quali possibilità di contenimento del fenomeno esistano e che non siano solo di
natura repressiva.
Fabio Giovannini