Pallido oggetto del desiderio sui legni del Verga

Nella riduzione di Renè de Ceccatty ritorna il testo di Luys che ispirirò pure Bunuel

Quali sfumature può assumere la passione amorosa?
E quante sono le forme di virtù o di depravazione che essa comporta? Una
conturbante presenza in attillatissima pelle nera - oscuro “daimon” della
femminilità e del sensuale abbandono, accendendo questi dubbi, accoglie e
traghetta i protagonisti di “Pallido oggetto del desiderio” di Renè de
Ceccatty, sui legni del Teatro Verga, lungo un viaggio allucinato e 
visionario all’insegna della ‘revue’. In uno scompartimento,
simbolico ‘interno’ – ora confessionale ora tribunale; ora alcova ora
altare sacrificale - avvolto sulla scena da una trasparente e al contempo opaca
pellicola - ad evocare la luce soffusa ma dura del ricordo - il protagonista
Matteo (un Pino Micol assai efficace) riannoda per il nipote Andrea (Stefano
Galante) il filo dei ricordi e della passione per Anita, una indecifrabile donna
che gli ha sconvolto la vita. La suggestione del viaggio nel viaggio - verso i
ricordi e le sensazioni, le labirintiche atmosfere di un passato che è ancora
ferita - è resa con denso simbolismo dalla mano registica di Alfredo Arias non
solo dalle note di un tango infinito, ma dalla forza evocativa che rende
l’atto unico, calato in una macchina scenica curatissima, assai prossimo al
“teatro di parola”, una parola che si connota come sofferenza fisica e
spirituale. Un po’ ‘vaudeville’, un po’ ‘grand guignol’ dei
sentimenti (anche in alcune soluzioni coreografiche) “Pallido oggetto del
desiderio” riprende con altre e diverse suggestioni le tematiche dei
barthesiani “Frammenti” e indica finalmente una ideale linea di continuità
tra gli spettacoli dello Stabile. Avventura spiccatamente surrealista nella
quale le altre due protagoniste - la mezzana e fiabesca matrigna Valentina
(l’ispirata Francesca Benedetti) e la stessa Anita (una Daniela Giovanetti
aderente) manifestano in realtà una sola donna, una personalità schizofrenica
(elemento che Bunuel sottolineò nella sua trasposizione cinematografica) e
innestano il tema assai presente del doppio, dell'ambiguità, dell'androgino,
del gioco intellettuale della seduzione.
Dunque Anita questo “pallido
oggetto del desiderio” si manifesta gradatamente in un crescendo di sensualità
ora facile e ora inaccessibile. Il gioco continua, sempre più crudele,
grottesco e ossessivo in una spirale che abbraccia nel finale pure una
vampiresca e masochistica, sadica violenza. Pur evitando di indirizzare la sua
vis (come Bunuel) “contro la borghesia e i suoi riti ottusi e grotteschi, la
sua violenza repressa e l’insopportabile ipocrisia della sua autostima” la
regia di Aries la lascia scorgere tra le righe, imbastendo uno spettacolo
ossimorico, evocativo che nulla concede alle gratuità pornografiche cui
qualcuno ha voluto alludere. Già: ciò che si fa per amore e' sempre al di là
del bene e del male o meglio, come diceva Kraus, ogni perversione è una forma
d’amore…

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