Nell'affollato salotto della LibreriaCafè Tertulia, la scrittrice e drammaturga palermitana rilegge, in una atipico e fascinoso reading, il suo Barbablù, il monologo appena pubblicato dalle Edizioni della Battaglia.
Lei
legge sicura, la voce profonda, scolpite le parole del suo inconsueto reading
sul silenzio attento della raccolta saletta del Cafè Libreria Tertulia.
Beatrice Monroy, palermitana, un velluto nero e damascato, i lineamenti sereni
di una fascino ancora lontano dal tramonto, è una donna che ha molto vissuto,
molto sofferto, molto scritto: anche e soprattutto per il teatro. Soprattutto
per ed in nome la sua città, “un vuoto che si chiama Palermo”. L’abbiamo
incontrata in occasione dell’uscita nella collana Junkbooks, per i tipi delle
Edizioni della Battaglia di “Barbablù”, un breve ma denso racconto -
scandito nelle due sequenze de “Il volo” e “ il delitto” – su cui
hanno discusso Elio Gimbo e Maria Lombardo. Se il regista ricava dal “Barbablù”
di Perrault l’“archetipo” maschile (e al contempo il pregiudizio della
curiosità tutta femminile, ovviamente da punire), la giornalista catanese ha
parlato del testo della Monroy come di una “favola non favola” che impone
quasi la morale della conoscenza e, tra una citazione di Jakobson e un accenno
al Sartre di “Porte chiuse”, ne ha sottolineato l’atipica variante del
finale, in cui la protagonista ottiene da sé la salvezza. Il Barbablù di
Beatrice Monroy ci pare invece superare definitivamente la dimensione fiabesca
per ergersi a narrazione “mitica” ovvero una riscrittura assai vicina per
modi e per temi a quella di Christa Wolf. Muto infatti nella fiaba originale si
alza nel testo della Monroy l’io narrante femminile per acquisire
consapevolezza, per gridare “il sacro dello scandalo”. Lei ha amato da
sempre questa storia di donna che riusciva a fare “una cosa che noi in Sicilia
non sappiamo fare, ovvero guardare in faccia la realtà. Una verità che costa
amore, che gronda solitudine. Scegliere di aprire la porta dell’orrore è per
la protagonista un atto sacrilego” ma assolutamente liberatorio. In questo
modo “Barbablù” funzione come una sorta di piccolo racconto di formazione
interiore, scandito in forma di monologo. “Sì – conferma Beatrice Monroy
– il mio Barbablù nasce come monologo in tue tempi: la scrittura teatrale è
quella che sento più vicina”. E infatti questo testo, che ha vinto il bando
dell’Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia, diventerà presto
rappresentazione teatrale. “Adesso - precisa la Monroy - stiamo costruendogli
attorno uno spettacolo con fuochi e percussioni: è insomma un testo che cresce
nella misura della performance”.Quanto di Beatrice Monroy si
nasconde dietro la figura della protagonista è presto svelato: ex militante di
Lotta continua, poi vicina al Pci-Pds, è figlia di suo padre, “un
intellettuale – precisa - che però era il principe di Pandolfina, un principe
sui generis, che mi ha fatto vivere in giro per il mondo.
Per me il problema della verità è diventato negli anni determinante
nella mia vita. Specialmente nella mia scrittura, per la quale sono stati
determinanti personaggi e maestri come Michele Perriera e Franco Scaldati. Circa
i miei modelli letterari considero la Wolf un monumento del Novecento anche dal
punto di vista narrativo, così come Marguerite Duras. Fra gli scrittori
contemporanei della mia città non vorrei scordare, su tutti, Roberto Alaimo”.
A maggio uscirà “Armalo di città” il nuovo romanzo di Beatrice Monroy per
i tipi di Derive e approdi. “Finalmente. Mi considero una scrittrice - sorride
- assai lenta: non sono un buon elemento per una casa editrice…”