La trincea saliva verso la montagna, e il colloquio dei cannoni non sembrava avere tregua, sebbene fossimo alla vigilia di natale. Il bombardamento era iniziato da poco e nell’aria gelida di dicembre, attorniata da silenzio e fumo, s’udiva solo il crepitio dei mortai e delle mitraglie.
Era la mezzanotte del 24 dicembre 1917. All’improvviso, non so come, in una piccola nicchia scavata nel fondo di quella trincea spuntò un presepe. Un soldato aveva trovato un letto di licheni, un altro due grosse pietre levigate che sembravano le pareti della santa stalla, un altro un pezzo di legno da coprir quelle pareti e finalmente, da non so quale zaino, era uscito un piccolo Gesù Bambino di gesso, una Madonna, San Giuseppe e perfino un bue e una pecorella. Qualcuno, infine, aveva messo un mozzicone di candela da far una luce fioca che illuminava quella piccola edicola. Anche la neve, copiosa e veloce, faceva la sua parte, in quella notte beata d’un natale di guerra. E i soldati, gocciolanti di pioggia e d’angoscia, che s’inerpicavano su per la trincea, in attesa dell’ordine d’assalto, e gli ufficiali con l’aria affaticata e con passi nervosi, e persino i muli, stanchi e tirati, che passavano da quel luogo, curvavano il volto, si fermavano un poco, accennavano ad un segno di croce, con un sorriso di fanciulli lontani e passavano oltre. Eppure era natale e quel presepe ci chiamava a suoni e ricordi lontani, attorno al focolare nella casa dei nonni, in attesa della nascita del Bambinello di Betlemme.
Ricordo ancora quel dicembre del 1669. C’era un freddo intenso e un vento che confondeva persino i nostri penosi pensieri di sfollati. Quella marea umana sembrava non trovare pace, avvolta com’era da un silenzio innaturale spezzato solo dai pianti dei bimbi, dai latrati dei cani e dal respiro dei tanti che chiedevano parole e conforto per un domani pieno d’incertezze e di timori. Eravamo accampati alla meno peggio in mezzo ad una radura, proprio ai confini d’un ampio terreno pianeggiante denominato Mezzocampo, tra sterpi di ulivi e macchie di fichi d’india. A tramontana ci riparava un poggio roccioso, dove molti di noi ci avevano messo gli occhi per rifare il paese distrutto dalla lava nel marzo di quell’anno. Quel colle appariva rude, selvaggio, con anfratti, avvallamenti, e poi terrazzamenti, leggeri declivi, pareti di roccia, ma a noi ci sembrava accogliente, adatto ai nostri desideri, certo, bisognava lavorarci un po’, ma si poteva fare, potevamo rifare le nostre case, le strade, le chiese, potevamo far rinascere la nostra vita, in quel luogo potevamo rifare il nostro povero paese, ch’era stato sepolto e mangiato, proprio alcuni mesi prima, dal fuoco della Montagna. E proprio la notte del natale del 1669 in quel luogo preparammo un presepe, con i vecchi pastori salvati dall’immane tragedia, qualcuno mise due pecore, un pastore, il suonatore di cornamusa, ‘a susanedda, e poi in mezzo a tre pietre ancora fumanti di lava, a forma di capanna, mettemmo un piccolo Gesù Bambino di gesso, una Madonna e San Giuseppe, e un lumino, per dare luce alle nostre speranze e, tutt’intorno accucciati, attendemmo la nascita di Gesù Bambino.
E anche quest’anno è natale, vissuto nelle trincee delle nostre case, delle nostre vite, o nella luce tagliente e fredda d’una corsia d’ospedale, in solitudine, o in attesa dell’infermiera Betty, o d’una chiamata che non arriverà mai. E ancora abbiamo rifatto quel piccolo presepe, con tre pastori, due pecorelle e la santa grotta di Betlemme, con una Madonna, San Giuseppe e il Bambinello di gesso, come lo videro i soldati al fronte, o gli sfollati del ’69, come l’hanno visto, in ogni epoca, tutti i poveri cristi del mondo. La nascita dell’uomo, tra la paura e le stelle, tra la rabbia e il sorriso, tra un passato mai passato e il futuro che verrà. Tra le città che piangono, di notte, nel cuore d’ognuno. “Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore, e nessuno sa spiegarsene la ragione”. Ma noi ripensiamo a mille attimi prima dell’incendio, al furore dell’uomo, alle mani brulicanti di desideri, agli occhi che cercano occhi, alla passione di andare, ai giochi d’infanzia nel cortile da’ za’ Tudda, al candore del primo mattino. E poi tutto viene sporcato da un minuscolo essere immondo che si mangia il cuore e il respiro. Non è giusto.