Messina. Cent'anni dopo

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Che è successo qualcosa si capisce subito. Un colpo d’occhio disarmonico, come la cattedrale che s’affaccia sulla grande piazza di sbieco: un paesaggio cubista, nella tela le montagne, il mare. I palazzi moderni, l’edilizia popolare, le troppe ruspe, le sempiterne baracche. I colori di una striscia di terra dove Messina si allunga braccata dal fardello di una storia tragica e di un futuro spento da un debito spaventoso, 140 milioni di euro. La città sembra ruzzolare in acqua, come le sue strade.

Tutto va al mare, ma le baracche resistono. Sono il vero monumento di Messina. "Celebrano" il terremoto che cent’anni fa rase al suolo il 90% delle case. Passò poi il maremoto a finire il lavoro. Eccolo, il cuore di Messina: il villaggio Matteotti, i fondi, il Ritiro, il rione Taormina: cinquantamila metri quadrati, chi c’è nato non ci fa più caso. Adele Fisichella non c’è nata. Quando è andata ad abitare nella «casetta», così la chiama, aveva sei anni. «Questo era un lavatoio», e punta la sua abitazione. Delle baracche del dopo terremoto ne rimane solo un piccolo agglomerato confuso tra i nuovi palazzi dell’Annunziata. Struttura in legno, pavimento di cemento grezzo, ci viveva da settant’anni Concetta Albano: il centenario ha fatto il miracolo, scuotendo la burocrazia che le ha fatto ottenere, tre giorni fa, l’alloggio popolare.

Il retaggio del terremoto è soprattutto la cultura delle baracche. L’ediliza fascista fu qui insolitamente modesta: il grosso di questi umilianti tuguri risale agli anni trenta. Ricostruire dopo la seconda guerra mondiale fu facile e poco dispendioso: altre baracche. Svuotate da chi ottenne in seguito l’alloggio popolare. Ma anche rivendute, affittate, mai abbattute dall’amministrazione né dall’Iacp, l’Istituto di case popolari. «Ci sono persone che occupano da cinque anni o da un giorno: è un modo per ottenere l’alloggio popolare», spiega Angela Bottari, del Pd. Si crea così una graduatoria di fatto, da sanare. Così è per Adele, e mamma, papà, il marito, i due figli e la sorella. I sette Fisichella sono entrati in queste pareti di cemento armato 26 anni fa da abusivi. E aspettano la casa popolare: «Mio padre si è ammalato ai polmoni. Ogni tanto vengono, scrivono e se ne vanno». Accanto c’è il gruppo di casupole più infami, coperte in eternit (amianto). Sono basse, alte, grosse, strette. Addossate l’una all’altra in conforto, unite dal fil dei panni stesi e dal curioso fatto che se piove l’acqua entra dal tetto. Una legge regionale del 1990 destinò alla città 500 miliardi di lire per "risanare". Chissà dove sono finiti quei soldi: le baracche censite nel 1959 erano cinquemila, cinquant’anni dopo sono ancora tremila.

La zingara «Non ci voli la zingara a ‘ndovinari a ventura», si dice da queste parti. E sono "cartacce" quelle in mano al sindaco Giuseppe Buzzanca, Pdl, già decaduto una volta perché usò l’auto blu per raggiungere la moglie in vacanza. È «peculato d’uso». Fu allontanato dalle cariche pubbliche, è tornato al comando, vincendo le ultime elezioni. Ma questa è terra di resurrezioni: Franco Tomasello è il rettore dell’università definita in commissione antimafia «l’ente appaltante più grande del meridione». Anche lui lascia e riprende la carica. Quando molla, c’è di mezzo la procura, che ha chiesto e ottenuto per due volte la sua sospensione: è indagato per i concorsi truccati a Veterinaria (il 5 marzo inizierà il processo, il rettore è accusato di concussione e abuso d’ufficio) e per favoreggiamento in un concorso per dirigente al Policlinico (coinvolto anche il presidente della Provincia, Nanni Ricevuto, sempre Pdl).

L’epicentro dei terremoti politici dunque è l’università con i suoi appetiti di potere, gli interessi di mafia e ‘ndrangheta, il nepotismo. Guardare avanti non è semplice. Il Comune è tecnicamente fallito, evita di proclamare il dissesto per non mettersi il dottore in casa (leggi: il commissario. Anche lui va e viene). Il grosso del debito è a carico dell’Atm, la municipalizzata dei trasporti, che si mangia 34 milioni di euro. In una città così adagiata, una viabilità costruita a pettine (una linea centrale tramviara, da cima a fondo, servita da linee più brevi laterali) è di sicuro successo. Eppure non c’è. Altre aziende paracomunali - con gli amici sistemati nei millanta Cda - dissipano altri 20 milioni.

Ci sono anche aspetti grotteschi: «Il comune perde tutte le cause in cui è chiamato a rispondere», rivela Emilio Fragale, direttore generale ai tempi della giunta di centrosinistra (che finì commissariata). Si chiama “gestione fallimentare del contenzioso”. Avere un avvocatura debole, o inesistente, può costare milioni di euro. «Per tre anni - ricorda Fragale - l’amministrazione non era assicurata per i danni provocati dalla mancata manutenzione». Se uno cadeva dal motorino per colpa di una buca per strada, il Comune si svenava nel risarcirlo.

L’incuria governa Messina: altri milioni vengono gettati per «cause non difese», le multe non sono riscosse, e i condoni sanati non sono stati incassati: doppio danno, prima all’ambiente, poi alle casse. Certe abitudini sono come macerie. Schiacciano e fanno polvere in un posto dove è successo qualcosa, ma non succede mai niente.

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