Ma è una cosa seria

Dalla carta alla scena, dalla scena alla carta.
Vanno e vengono specie se sono gli stessi a trovarsi sulla carta e sulla scena, come i De Filippo di tutti Luigi, figlio di Peppino, ospite mercoledì scorso a Magie d’Estate, la rassegna diretta da Giovanni Anfuso...

"Magie d'estate", il teatro di Luigi De Filippo che presto sarà su Raidue
E in "Buffo napoletano" dov'è finito il Vesuvio?

MISTERBIANCO
- Dove vanno i pagliacci? Che
mangiano i pagliacci? Dove dormono i pagliacci? Che fanno i pagliacci quando non
c'è ormai nessuno, ma proprio nessuno che rida...
Ma loro, i Pagliacci del Teatro, vanno e
vengono.
Dalla carta alla
scena, dalla scena alla carta.
Vanno e vengono specie se sono gli stessi a trovarsi sulla carta e sulla scena,
come i De Filippo di tutti Luigi, figlio di Peppino, ospite mercoledì scorso a
Magie d’Estate, la rassegna diretta da Giovanni Anfuso, e dinanzi a un
pubblico ben nutrito e nient'affatto impaurito dall'acquazzone di un paio d'ore
prima, con il suo Buffo napoletano da
lui scritto, diretto e interpretato e che vedeva la luce per la prima volta
quindici anni fa.
I De Filippo, dicevo, per i quali la «carta» (i copioni) è già teatro ed il
teatro è un foglio bianco su cui scrivere, riscrivere, aggiustare. Che è in
fondo ciò che fa, da lunga pezza, Luigi De Filippo, attore da cinquant'anni (il
«compleanno» è proprio del 2001) ma anche autore
e regista, secondo la più pura tradizione del carro di Tespi per cui le tre
funzioni si fondono in un'unica anima.
E scrive, Luigi (di cui «Palcoscenico», su Raidue, manderà in onda, a fine
settembre, L'amico di papà) scrive «all'antica» e cioè a misura
d'attore, «tagliando» su ogni interprete l'abito del tragicomico o del comico
tout court,e concedendo a ciascun hystrio
la sua «tirata» con tanto di carrettella finale.
Certo che, quanto ad ispirazione, i tempi d'oggi offrono ben altri spunti e ben
altri guizzi che all'epoca dell'Oro di Napoli o di Napoli milionaria.
Napoli ectoplasma, semmai, o addirittura Napoli fantasma in Buffo, una Napoli che, come una moglie imbruttita perché
trascurata, preferisce scomparire a poco a poco dinanzi ai partenopei che di lei
vedono ciò che vogliono vedere. E, messi alle strette, piuttosto che farsi
carico delle loro responsabilità, si fasciano con la benda della retorica
(Napoli sta scomparendo pezzo per pezzo
), dei luoghi comuni (droga,
delinquenza, disoccupazione) e del cinico buonismo dell’ultima ora. Come
quello di Gennaro Spada (De Filippo in scena), appaltatore dal passato non
proprio cristallino, ricco di tutto fuorché d'affetto (la giovane moglie,
un'ottima Grazia Carrino, è un malinconico incrocio tra factotum e
soprammobile), sazio di tutto fuorché di cultura («a ro' vai ca 'a fortuna te
vatte» ma in realtà voleva prodursi in un audaces fortuna iuvat).
Gennaro, metaforicamente «malato» di mancanze ed eccessi di tutta una vita,
tenta allora di rifarsi una verginità mettendosi in casa uno scippatore e
promuovendolo «tartufescamente» a segretario particolare.
Tutto ciò tra incubi di notte («'O Pateterno m'addumannava 'a tangente») e di
giorno, tra una suocera illividita ed una famiglia «allargata» a cameriera,
vicini e vigilantes. Non senza passare per citazioni quasi «naturali» che
fanno parte del dna di Luigi, come il disprezzato ragù della moglie (lui lo
chiama «carne cotta», Eduardo diceva «carne c'a pummarola») oppure, prova
provata dell'ennesimo adulterio di Gennaro Spada, i fazzoletti sporchi di
rossetto, quasi come quelli trovati in tasca a Domenico Soriano di Filumena
Marturano.
Un'altra pièce e un altro pezzo di tradizione, un altro segmento d'una linea
lunga lunga cominciata nel secolo prima dell'altro secolo, con Eduardo
Scarpetta, il riformatore del teatro napoletano dell'Ottocento, Scarpetta che di
Eduardo, Titina e Peppino fu padre «disattento», come dice Luigi De Filippo.
Il quale, dietro le quinte subito dopo «la mezza», mi racconta di quel primo
«vuoto di sala» del nonno, ancora all'inizio della carriera.
«Doveva fare uno spettacolo in un paesino a un passo da Napoli. Ci
teneva eccome, allora non lo conosceva nessuno e finalmente sarebbe stato
pagato! L'impresario, però, era perplesso. La gente verrà?
“Ma certo
che ci sarà pubblico.”, lo rassicurò Scarpetta.
Mettiamo che qui ci vivano mille anime: trecento non verranno perché vecchi e
bambini, altri trecento non potranno lasciare il lavoro. Ne restano
quattrocento: vuole che di questi almeno duecento non siano in sala?" Il
ragionamento non faceva una piega ma alla sera l'impresario gli bussò in
camerino.
In sala non c'era anima viva.
“Avite raggiune” fece Scarpetta.
“M’aggia scurdate 'e fetiente!”».

CaCe
La Sicilia 25/08/2001

tags: