Il corpo narrante di Marco Baliani al Piccolo Teatro

"Kohlhaas" da Kleist nella performance per corpo e voce di un interprete magistrale...

Il corpo narrante
di Marco Baliani raggruma lo spazio vuoto e nero della scena sull’unica pozza
di luce. I legni del  Piccolo Teatro
risuonano del suo corpo, declinato alla dura disciplina della parola e del
gesto. L’una per raccontare, l’altro ad esprimere, attraverso un
monologo-performance tipicamente stanislavskiano, la storia di Kohlhaas,
dal testo originale di H. Kleist. Attraverso una personalissima ritrascrizione
orale Baliani, attore e regista, ripropone una celebre “storia vera” che accumulazioni narrative personali hanno progressivamente
trasformato. La luce indefinita del tramonto dalla veranda della sua fattoria di
allevatore di cavalli è l’unico vezzo – una sorta di quadratura del cerchio
che ritorna simbolicamente per tutta la narrazione - di Michele Kohlhass, un
personaggio qualunque che vive il suo tempo
semplicemente. La sua è la storia di una spaventosa “ruina”, innescata dal
sopruso di un altezzoso signorotto locale. Vede così improvvisamente disfarsi
l'unico valore in cui ha creduto sino a quel momento: la giustizia innata delle
istituzioni, idealmente conservato dentro il “recinto del cuore” (una
sovrastruttura rispetto al testo di Kleist). Michele Kohlhass (il protagonista
ricorda il pastore di “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro) diventa per
così dire “hobbesiano”. L’angosciosa speranza di un intervento legale che
non arriva mai avvia la metamorfosi morale ed interiore di Michele: l’intero
universo diventa colpevole ai suoi occhi e in questa sua semplificazione Michele
Kohlhaas comincia a sperimentare sugli altri il suo personale concetto di
giustizia, in una spirale di cieca violenza e di puro e arbitrario potere.
Kohlhaas non accetta compromessi, il suo diventa delirio d’onnipotenza. Egli,
“il recinto del cuore strappato” infrange così il “cerchio del giusto”
fino in fondo, quando penzolerà da un cappio nella piazza di Berlino. In questa
storia di soprusi, di leggi aggirate, di diritto imposto dai potenti, Baliani
racconta “su” se stesso, non solo quello che implicitamente potrebbe
delinearsi come una
lotta per il
Capitale e per la diffusione del libero mercato ma soprattutto il cosiddetto
“meccanismo Kohlhaas” che di volta in volta ha trovato puntuale applicazioni
nella storia: dalla Convenzione in Francia, ai Garibaldini a Bronte fino ai
talebani di Kabul. Un meccanismo che lo stesso Baliani ha sperimentato con la
sua generazione, quella del sessantotto, “quando in nome di un superiore
ideale di giustizia sociale si arrivò ad insanguinare piazze e città”.
Appare evidente che per Baliani, formatosi con
Eugenio Barba e l’Odin
Teatret, narrazione è soprattutto comunicazione: non la lingua dell’estetica
ma quella dell’etica. Se, come dice l’eremita
a Kohlhaas “il desiderio degli ingiusti è la vendetta”, questa storia
lascia in sospeso tante domande e altrettanti dubbi, inquieti anche sui trilli
maleducati dei telefonini.

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