"Dondolo": c'è Beckett al camera Teatro Studio

"Di stanza Beckett" il corposo progetto di Nino Romeo e del Camera Teatro Studio prende l'avvio con "Dondolo" interpretato da una misuratissima Graziana Maniscalco.

La dimensione
è il buio. Interiore, abissale. Nel ripetitivo movimento di “Dondolo” la
piece di Samuel Beckett (nella traduzione di Fruttero e Lucentini) interpretata
da Graziana Maniscalco e che il Gruppo Iarba ha presentato sui legni del Camera
Teatro Studio per la regia di Nino Romeo, incentra la sua angosciata vis
drammaturgica sul ritmico funereo oscillare della sedia su cui la protagonista -
sinistramente imbellettata - avverte lungo un ossessivo dialogo interiore forse
prima della fine (ovvero la sua stessa voce registrata) la spirale del tempo
restituirle brandelli di memoria, forse di vita. Così lungo il suo discorrersi
addosso, chiusa in una monade percettiva e coscienziale, i volumi
spazio-temporali sono sovvertiti, connotati da opposizioni - “dentro/fuori”,
“alto/basso” avanti/indietro” - simbolicamente elaborate in una sorta di
osservazione-dialogo speculare, autoptico e autoscopico. Ci pare infatti di
individuare nella reiterata immagine dello specchio (“tutta occhi” ripete di
continuo la voce registrata) la parola chiave di questo
‘dramaticules’concentrato in se stesso e dal quale è possibile solo a
tratti immaginare una realtà esterna, fatta di un paesaggio uguale di finestre.
Non c’è in effetti azione apparente: tutto implode dentro
l’inventario uguale dei giorni in una coazione disperata da cui è impossibile
fuggire e da cui emergono relitti: forse di un amore di una esistenza non
vissuta, monca d’affetti, di occasioni. Nel confondersi della protagonista con
stessa madre – quasi una coazione biologica che si trasmette col sangue e
fatta di gesti uguali – in un elaborazione dell’inappartenenza esperita
attraverso la parola Graziana Maniscalco delinea sul “Dondolo” una ferale
vecchiezza, perenne ed inestinguibile. Ed è proprio alla fine che esplodono le
domande, l’inquietudine dilaga, mentre lo stesso Beckett sembra ricordarci:
“I’m working with impotence, ignorance”.

tags: