C come C'era, C come Carnevale, C come Campanazza...

Storia assai
personale del Carnevale di Misterbianco...

Era
certamente febbraio. Ed era carnevale.
La zona Toscano era nei sogni e sui
lucidi degli ingegneri, il paese si stringeva per la tramontana ma per le strade
i domino impazzavano… Quello odierno, tecnologico e burocratico, previsto e
dettagliato come una circolare ministeriale, pronto a sfoggiare la solennità
laica delle sue processioni insieme all’insofferenza della propria ragion
d’essere, cominciò per gioco - e gioco doveva continuare ad essere - una
ventina d’anni fa, quando i domino non ci solleticavano più gli sguardi e i
balli per strada cominciavano a mostrare le crepe delle loro piazze semivuote.
Quando cioè gli altoparlanti si accanivano a diffondere con un rigurgito
solitario - che stupiva pure i colombi appollaiati sui cornicioni - i loro
successi di anni di cui ormai nessuno sospettava più niente: nemmeno i vecchi
con la bocca aperta nel loro andirivieni meridiani, sporcati dai coriandoli che
i loro nipoti, vestiti da Zorro e da fatina, si sforzavano di lanciare.
E allora,
quando i
baci perugina cominciarono a diffondere l’aroma acre delle loro scadenze dalle
bacheche che nessuno più guardava;
quando anche il bar per eccellenza del
nostro insanire, dove molti padri della patria e parecchi figli di buttana
(differenza che non fa nessuna differenza) avevano trascorso i loro anni più
saggi e spensierati inseguendo il fascino del nulla - alzava il bavero del
disinteresse anche dei martedì grassi e le strade addobbate di luci, che
illuminavano solo il volo monotono e nervoso dei pipistrelli, facevano tenerezza
per il loro abbandono tanto da sembrare sempre mercoledì delle ceneri;
quando anche Pippo
Giaccone e i suoi amici - lui in un altrove definitivo che non avremmo mai
sospettato, gli altri verso la rispettabilità di un ruolo in società –
avevano cominciato a diradarsi e a sfoltire le loro triviali e meravigliose
sfilate di nozze irriverenti;
quando ancora
qualcuno si ostinava ad appendere sulla sbadataggine degli allocchi l’ennesimo
asso di mazze senza accorgersi quasi che ormai la schiena su cui si accaniva era
la sua, perché nessuno passava;
quando le
ordinanze dei carabinieri avevano regredito la coppiata delle uova nel
paleolitico della barbarie;
quando anche gli
universitari e i professionisti avevano mandato a strafottere le serate danzanti
al cinema Trinacria - strappandolo per un attimo alla sua nicchia porno - in una
bancarotta di abbonamenti che nessuno pagava, che pochi fingevano di pagare e
che tutti prenotavano con settimane d’anticipo, di orchestre che non suonavano
e di fiori appassiti all’occhiello del barista;
solo allora,
con un lampo di
genio,
Turi Campanazza aveva tirato fuori dal cilindro della sua immaginazione -
saranno state le solitudini che gli suggerivano gli agrumeti della piana -
sbalordendo pure i compagni di partito - minchia Turi perderemo tutti i voti dei chisiastri - inventò, in
uno strepito di piume e di colori, di allusioni lessicali che avrebbero lasciato
il segno, di decolté e di minne finte, di lustrini e di sfilate
disordinatamente divertenti, coi carri rabberciati delle nottate e delle ragazze
che finalmente uscivano, un altro carnevale.
E fece capire a tutto il paese, con la cocciutaggine che lo caratterizzava anche
quando rifiniva gli ordini del giorno del consiglio comunale a ceffoni, in
strada, santiando contro chicchessia che gattopardescamente bisognava cambiare
per lasciare sopravvivere quel carnevale imminchionito anche se era necessario

mettere lo scemo del villaggio ridente dentro una pentola invece che
sopportarselo sempre compassato ad un angolo di funerale;
ci fece insomma comprendere - anche se non lo disse mai durante le riunioni dei
suoi pubblici cazzeggiamenti - che era indispensabile, se veramente volevamo
sopravvivere, mascherare pure Caterina a “casella” strappandola per quei tre
giorni ai ricordi pensionati delle lattughe, delle verdure e delle ‘maidde’
di olive nere della sua bottega - olive che rubavo di passaggio salendo dalla
via Garibaldi - olive così grosse e perfette, con l’aceto e il prezzemolo ad
abbellirle che solo Pippu u Pazzu dall’antro del suo laboratorio sdegnoso,
venti passi più sotto, era riuscito a riprodurre nei tabarè ineguagliabili
delle sue paste reali.
Era cominciato così, un febbraio di troppi anni fa, un febbraio nel
quale il vento non era così gelido e la pioggia non cadeva sbilenca e forse un
po’ triste e non esisteva nulla o almeno nulla ci pareva potesse esistere,
nemmeno trent'anni prima…

Giuseppe Condorelli

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