"Dignità e futuro per me e gli 80mila lavoratori dei call center"

Natale FalàTutti mi dicevano vattene da qui perché da noi non c’è lavoro per nessuno. A 27 anni, con una laurea in tasca, avevo voglia trovare un’occupazione e ascoltavo i consigli di chi mi diceva di andare lontano da Misterbianco, il comune alle porte di Catania dove sono nato.

Ma da figlio di emigrato tornato dopo tanti anni di rimesse svizzere, l’idea di dover riaffrontare la vita di mio padre, non aveva ancora fatto breccia. In più c’era, Lory, la mia ragazza che stava per laurearsi. Così, in attesa di potere decidere insieme a lei, pensai che poteva andar bene anche un lavoro precario e mandai il mio curriculum ad Almaviva.

E’ iniziata così la mia vita al call center. Il primo mese di lavoro guadagnai 0,26 centesimi lordi a chiamata ricevuta. Un flop: in quindici giorni ero riuscito guadagnare appena 22 euro. La mia voglia di scappare non poteva che aumentare. Ma, alla fine del mese, mi proposero di occuparmi dell’assistenza mobile per un’azienda di telefonia, che mi avrebbe permesso di avere molte più chiamate da gestire e uno stipendio accettabile. Lavoratore a progetto a 0,42 centesimi lordi per sei giorni a settimana riuscivo a raggranellare circa mille euro al mese. Nel 2007 la svolta: assunto a tempo indeterminato assieme ai miei 1.199 colleghi, tra cui adesso c’era anche la mia fidanzata. Un’opportunità arrivata grazie ad una circolare dell’allora ministro Cesare Damiano che, per la prima volta, tentava di dare regole a questo settore. Anche se non era il sogno della nostra vita, ci avrebbe permesso di sposarci e la banca non ci avrebbe negato il mutuo per la casa. Siamo cresciuti in azienda, diventando entrambi full time, un po’ alla volta non più ‘in cuffia’ ma con il ruolo di coordinatori. La nostra famiglia si è arricchita con l’arrivo di due figli.

Ma contemporaneamente sono arrivare le preoccupazioni. Da un anno abbiamo contratti di solidarietà. E il 18 aprile scorso, l’azienda ci ha informato che, nonostante la qualità del lavoro e il nostro impegno, improvvisamente costiamo troppo. Il futuro è sempre più cupo. Gli attuali addetti alle telecomunicazioni, un tempo giovani e studenti che intraprendevano per brevi periodi questo lavoro, ora hanno un contratto nazionale, hanno mediamente 40 anni, famiglie con figli da crescere. Io e i miei colleghi diamo ‘voce’ a tante aziende private e alla pubblica amministrazione. In questo settore lavorano 80mila persone. Solo Almaviva impegna 10mila persone a Milano, Catania, Palermo, Napoli, Cosenza con clienti come Alitalia, Poste italiane, comuni di Milano e Roma, Mediaset, Tim, Equitalia, American Express, Enal, Eni, Inpdap, Inps, Vodafone e Wind.

Il rischio chiusura è dovuto a tre elementi: le gare al massimo ribasso, le delocalizzazioni e i dumping territoriali. Le gare al massimo ribasso non legano la commessa al costo del lavoro, che nel nostro comparto è il 90% del totale. Un esempio è il recente bando del front-end del comune di Milano: il numero 020202 brillante esempio di pubblica amministrazione che richiede anche risposte in cinese ed arabo ha una base d’asta inferiore al costo orario di un lavoratore inquadrato a norma di legge. La delocalizzazione, poi, permette di portare all’estero le commesse utilizzando lavoratori rumeni, croati o albanesi, privi di diritti sindacali e pagati un terzo dei colleghi italiani, ai quali si affidano anche dati sensibili degli utenti. In ultimo, la cattiva gestione dei contributi all’occupazione permette di creare, soprattutto al sud d’Italia, nuovi posti di lavoro a ‘termine’ ma, paradossalmente, contribuisce anche a far mettere in cassa integrazione lavoratori di aziende che in precedenza avevano le stesse commesse.

Per questo chiediamo alle istituzioni provvedimenti che restituiscano dignità alla nostra vita.

Natale Falà
lauraboldrini.it

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