Una pirotecnica favola d'autore.

"L'amore delle tre melarance" di Sanguineti (dalla fiaba di Carlo Gozzi) al Teatro Stabile. Tutti sopra le righe gli interpreti. Lello Arena nei panni di un Tartaglia rasceliano...

Sottrarsi alle “commedie che
puzzano di muffa”, compiacere il pubblico gentile, rilanciare il genere
asfittico della commedia e giustificare la nuova che si sta per mettere in
scena. Così il “nunzio” esordisce sul vuoto nero del Teatro Verga prima che
“L’amore delle tre melarance” esploda nel suo pirotecnico fulgore di
“favola fanciullesca”. Questo allestimento dello Stabile del Veneto e del
Teatro di Genova è la riproposizione del celeberrimo canovaccio fiabesco di
Carlo Gozzi che la penna caustica di Edoardo Sanguineti ripropone, in versi
“martelliani”, sotto la forma del “travestimento”. Anzi di vero e
proprio travisamento nel senso del parodico e del grottesco che continuano ad
essere le cifre stilistiche più significative del poeta genovese. La
ri-scrittura di Sanguineti, attraverso “una
lucidità - a suo stesso dire - iperartificiosa e superconvenuta e una
incontrollata e immediata spontaneità verbale”
avviluppa
infatti fiaba e vis polemica, in ottave a rima alternata, in stanze a rima
baciata o in esilaranti filastrocche
(fino ai sospirati endecasillabi
sciolti finali), attualizzando senza cadere nel tranello del cabaret televisivo,
alludendo senza essere laido e additando senza sottintesi ad una dimensione
materiale e globalizzata (le televendite e i consigli per gli acquisti) ed
insieme eroti-comica (gli pseudo-intellettuali e le divette civette) forse la più
autentica e psicologicamente moderna.  Insomma
attraverso una operazione linguistica – chè in questo consiste la forza
straordinaria della rappresentazione – “L’amore delle tre melarance”
riesce pure a sincronizzare la diacronia del teatro, delle sue forme storiche,
della sua stessa espressione: e la rappresentazione diviene anche il suo stesso
smascheramento, la sua autocoscienza di “finzione” (e la scena è una wundercammer
di cartapesta) attraverso il rispetto della fabula aristotelica: peripezia,
riconoscimento, lieto fine. La rivoluzione delle parole e delle forme - dal
Gozzi purista e classicista al caos sanguinetiano fino alla regia magnifica di
Besson - dà spessore ad una pantomima di ascendenza folenghiana in cui i
costumi di Ezio Toffolutti nella loro coloratissima semplicità ricordano le
figure animate di Lele Luzzati, un mazzo
di carte o i moderni miti manga, anche con le loro
maschere
grottescamente impersonali; nell’espressione, poi, addirittura Sergio Tofano,
magari attraverso l’iperbolica ipocondria del protagonista Tartaglia
(un Lello Arena perfetto e rasceliano)
, in perenne depressione, per cui
“se parla Buttiglione/ se lo crede un Tommaso, un Hegel, un Platone./Se legge
la Tamaro, diventa un funerale,/se appare Emilio Fede, non ghigna, anzi sta
male.” Accanto lui un cast, (tra cui segnaliamo “Re Silvio” Paolo Serra)
assolutamente sopra le righe per tutta la durata di questo “atto unico”. Non
ci è sembrato però che gli applausi fossero poi tanto convinti: che la platea
catanese preferisca il narcotizzante show del Bagaglino catodico?

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