Un falaniano

Breve storia di un filosofo e materialista, scritta a suo ricordo imperituro ovvero ad edificazioni dei posteri...

Breve storia di UN filosofo e
materialista, scritta a suo ricordo imperituro ovvero ad edificazioni dei
posteri.

Ci sono Sirene che piangono su isolotti alla deriva negli Oceani del
Desiderio. Hanno visi cadenti e trucchi eccessivi come i loro anni, seni bassi,
glutei molli, denti incatramati dal tabacco e frastagliati di carie.

Ma alcune sono ancora bellissime e nascondono la loro fragrante impudicizia
dentro i capelli disordinati sui volti, i veli colorati sulle mammelle rosee,
nude le mani sulle caviglie. Fanno gesti lunghi dalle dita affusolate verso un
punto indeterminato. Non si capisce se salutino o se aspettino.

Altre sputano sguaiate, ancheggiando sui Marciapiedi dell' Abbandono. Si
insultano a vicenda e bestemmiano di continuo. Lui le guarda assorto, si passa
la mano destra sul sesso e pronuncia tutti i loro nomi.

Si sussurra che Navi di Amori in fiamme arenate sui fondali bassi delle Spiaggie
della Carne abbiano intonato addii mesti ma sensuali, richiami inascoltabili e
tristi, nenie accelerate che i corpi degli amanti di ogni tempo biascicano
intrecciati nelle alcove.

C' è un uomo che saluta dalla riva: è pallido, con un vestito scuro che non si
addice all' atmosfera che lo circonda e si capisce che non è a suo agio perchè
si muove con difficoltà.

Comunque, sa che solo per poco gli è dato di rivedere la sua vita. Ciò
nonostante avanza lentamente accanto alle onde, come un equilibrista e, appena
superata una piccola duna umida che gli impedisce l' orizzonte, si accorge di un
piccolo bar, un baraccone dall' aria disordinata, con un grande telone bianco
sfrangiato che ripara dalla luce un tavolino di marmo, esplorato dalle mosche
senza posa. Dietro il banco c'è un giovanotto dal brillante ciuffo nero intento
a pulire. Lo saluta con un cenno e capisce di essere lui, solo molti anni prima.

All' improvviso si alza una musica, forse è un tango. Le note si inseguono e si
accavallano sferzate dal ritmo. Nella nebbia della calura si accorge delle tante
coppie che ballano languide, trascinandosi nell'afa. Sorride, mette una mano in
tasca, si asciuga le mani che forse sono sudate e invita una delle ragazze che
fumano vistose. In mezzo alla pista incedono sulle melodie per un attimo, quasi
aggraziati, poi si allontanano avidi verso una casupola.

Dalla porta semichiusa si intravede un letto in disordine e una caraffa d'acqua
accanto ad un vasetto ricolmo di gelsomini. Poi la porta si chiude. Con un
minimo d'attenzione, lo si sentirebbe canticchiare mentre, lentamente, si
sveste.

Si dìsfa delle banconote con naturale signorilità, miserevole obolo alla sua
principesca lussuria e guardando il suo anulare cerchiato d' oro fa una smorfia
col viso. - E' solo la mia fetta - pare dica giustificandosi.

Il brusio nella sala è quello eccitato delle feste: a ondate s'infrange,
scavalcandole, sulle note anarchiche che gli orchestrali in prova smusicano
professionali coi loro frac a nolo, dalle camicie macchiate di birra e di
sudore. Dalla playa arrivano odori salmastri e sciacquii appena percettibili sui
quali sventolano le luci che annunciano il "Lido Azzurro". Smanicano i
paesani in attesa della subrette lanciandosi impazienti occhiate da intenditori
di terza mano. Lui è al tavolo, appena ad un passo dal palco, immobile accanto
alla moglie, assorto: un tocco appena alla cravatta ed una frecciata
indifferente all' orologio.

Le gambe nere e nude scardinano le note dagli strumenti che gemono, eccitando i
legni tarlati del pavimento, inconsapevoli destinatari di panorami inauditi.
Solo allora si nota in lui un fremito composto ma ferino, percettibile appena ma
di una intensità sfrenata e inesauribile.

C' è una strada sinuosa che costeggia agrumeti fioriti ed orti, piccole case
animate solo da un esile fico e dall'abbaiare finto di cani alla catena sullo
sfondo di bouganvilles arrugginite e di edere scolorite. La macchina che
l'attraversa solleva un polverone d'oro che la luce del sole trafigge nonstante.

I cani adesso abbaiano rabbiosi. Dal finestrino un braccio abbronzato coglie
l'aria in mezzo alle dita.

"Don Santo..." comincia, ma dice così per dire e le parole cadono
inutili. L' altro è molto più anziano, anche se poche rughe gli solcano il
viso bianco e rasato. Possiede lo sguardo e i modi di un adolescente assetato di
vita. Respira profondamente, sorride al compagno che guida e allunga una mano in
mezzo alle cosce sfatte della donna seduta dietro che si schernisce rifinendosi
un trucco pesante. Ridono forte.

La casa è grande, circondata da un pergolato freschissimo e dal verde
interminabile che li assedia. Nelle stanze c'è un odore sciatto di chiuso, di
muffe centenarie, di segreti mantenuti a stento. Entrano e si avviano chiassosi
verso la camera da letto.

I lunedì pomeriggio (il suo giorno d'aria), appariva improvviso da un angolo
qualsiasi del paese, asserragliato nel loden verde. I rotondi occhiali da sole -
piuttosto che nasconderla - richiamavano la sua figura ai conoscenti. Saliva
furtivo sull' auto che lo aspettava e scompariva senza tracce. Ma chiunque
poteva trovarlo al solito posto con le puttane ogni volta diverse.

Il suo bar era un edificio dignitoso ma smunto dagli anni, piastrellato di
terracotte a scacchi amaranto e con le pareti annerite dal fumo, dagli sputi e
dalle minchiate degli avventori: generazioni su generazioni.

Il suo bar era il ventre grasso del bel palazzotto che sarebbe stato spazzato
via una nevosa mattinata di febbraio. Entrando, appena sulla destra, accanto al
bancone dei panzerotti, il vecchio telefono nero era pronto ad accogliere i non
solo suoi quotidiani sussurri e a trasmetterli dall'altra parte per una
Antonella, una Cettina, per una di cui non conosceva che le forme abbondanti e
provocatorie. Ed il prezzo. Il suo bar era il luogo per eccellenza, la piazza
animata di ogni carnevale, l' alcova sputtanata di studenti e presunti tali, il
circolo dei borghesi e dei perditempo, il tavolo verde di giocatori impentibili,
gogna dei benpensanti, rifugio degli allocchi di paese, tana di pazzi, bocca
smisurata che riusciva ad inventare qualunque pettegolezzo per godere un attimo
dopo della prerogativa della sua smentita clamorosa.

E il caffè, soprattutto, era davvero buono, con lo zucchero che naufragava (noi
con lui) lentamente dentro la schiuma dorata. Così come la granita che don
Cesare Basile per molti dei suoi settant'anni aveva sempre gustato, da buon
integralista, solo con la mafalda cosparsa di ciciulena e calda di panificio. Da
preferire senz'altro alle brioches, perfette e tornite - come amava ripeterci
servendocele - come seni di adolescente.

Me lo ricordo così io, frugarsi il naso dietro la macchina per il caffè,
lanciare richiami indecifrabili dal laboratorio dove il forno restituiva
lastroni di carrubbe che lui avrebbe trasformato in caramelle coll'involto opaco
e anonimo che tanto attiravano i catarri degli anziani, immobili davanti alla
televisione, in attesa di una fuga decisiva.

Me lo ricordo così, io arrampicato sulla sedia per arrivare al flipper, col
grembiule bianco macchiato di crema e di altre innominabili sporcizie, in posa
sotto la grande sciarpa rossonera (l'altra grande passione) che avvolge una
Coppa scura d'insetti, frugare avvenenze vere o sospette dagli specchi
appannati.

Me lo ricordo così, imprecare alla fortuna e agli anni, attendere veloce,
durante le partite rapide con gli avventori - nonostante conoscesse già l'esito
di ogni giocata perché non aveva mai rinunciato a barare - il puntuale agguato
acido della moglie.

Me lo ricordo così, tra un latte di mandorla e un caldofreddo, in esilio in
fondo al banco, tra intoccabili ragnatele e schedine del totocalcio, accanto
alle masenghini, fedeli compagne traditrici, incorniciato da una cartolina
accartocciata - che da anni scoloriva impietosamente un paesaggio
irraggiungibile - cercare invano con la manopola della radio a tutto volume,
inseguendole con un sibilo greve, le note struggenti di Reginella.

GiCo

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