Paolo Rossi la peste al Metropolitan di Catania

Tra sberleffi e lealtà alla "Costituzione" il comico col suo "Il signor Paolo Rossi e la Costituzione" costruisce uno spettacolo che fa ridere. Sul serio...

Sarebbe più
semplice descrivere un assolo di Charlie Parker ad un sordo che scrivere di
Paolo Rossi e del suo universo irriverentemente ironico. Ciò va detto subito a
nostra discolpa visto che “Il signor Rossi e la Costituzione”, sui legni del
Metropolitan per la stagione dello Stabile etneo, è uno spettacolo – ma
soprattutto indagine, scandaglio logicomico e esistenzial-politico di impervia
definizione. Nella semplicità della sua struttura, ovvero la riflessione su
alcuni articoli della nostra Costituzione, contaminando le forme del teatro a
quelle del cabaret musicale, questo atipico “monologo” è riuscito a
coniugare incazzatura e riflessione mentre ci si sbellica dalle risate. Per
questo piccolo-grande costituzionalista in nero (Jack o Elwood?), “il popolo
è sovrano”: lo scrive pure su una (ovvia) rossa parete che campeggia sulla
scena rigidamente scolastica, ma fortunatamente demorattizzata – lavagna,
tricolore libri e campanella ma niente crocefisso - nonostante l’arredo lasci
sospettare il contrario e sulla quale Rossi trasforma in gag pure una fastidiosa
eco - “Potresti mandarla prima, dice al fonico, così conosco in anticipo le
cazzate che devo dire?” – e sbeffeggia i soliti ritardatari: “Forse sono
arrivato io in anticipo…”. Lungo questa logica e serrata
“improvvisazione” che un valletto in divisa parlamentare beffardamente
accompagna, Rossi traccia la metafora tra favola, bugie e frottole, di chi
vorrebbe appropriarsi di questo libro fondamentale per piegarlo ai propri scopi:
ovvero Lui, il Berlusca (mai direttamente nominato se non come Gigetto), il più
grande comico di questo secolo. La tattica è quella di usare tutto quello che ha a disposizione
per la comprensione degli articoli: così, l
a dimensione ridicola
dell’autorità che Rossi delinea sfruttando le stesse battute del premier,
sorta di Grande Ispiratore, è irresistibile. Sostenuto da una mini-orchestra
pseudochicana, in qualità di “dittatore con degli schizzi di Illuminismo”,
Rossi accende pure una galleria esilarante di parlamentari (da Bossi, a Scaiola
da Fassino, a Buttiglione) attraverso i cui “accidenti qualitativi”
commentare la Costituzione e meditare “sullo iato tra la parola scritta e la
realtà” mentre intona blues e tarantelle, hip-hop e reggae con una inversione
incrociata dell’inno italiano - sulle note di “Sapore di sale” - che è
memorabile. Tra incursioni dialettali e chiacchierate col pubblico, sposalizio a
richiesta e una sovversione burlesca debordante, “l’adunata di delirio
organizzato” procede serissima tra le righe, seminando Rossi profondo il seme
del “senso” di quei 139 articoli e facendo la spola tra Esopo, Pericle e
Alfieri, per curvare le loro morali alle sue argomentazioni. Nell’acceso
climax della seconda parte dello spettacolo l’umorismo diventa tragicomico
sarcasmo quando, pure sul dilemma della presunta colpevolezza andreottiana,
emergono tra frizzi e lazzi, trent’anni della nostra (oscura) storia: da
Ustica a Bologna, da Calvi alla P2; dall’affaire Moro a quello Sofri. Il
finale “cool” è solo apparentemente rassicurante: con la voce suadente di
un “crooner” Rossi si attacca alle note di “Unforgetable” per ricordarci
ancora che di quel “libretto tascabile” non bisogna mai dimenticarsene.

Come di questo
spettacolo a cinque stellette condito da meritatissime ovazioni.

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