Una prima vincente per un debutto:
la pièce “Amici” di Nino Romeo (premio Candoni 2001) per il fiammante Camera
Teatro Studio, il nuovo e raccolto spazio scenico che lo storico Gruppo Iarba ha
appena inaugurato proprio con il lavoro del drammaturgo e regista catanese.
Una prima vincente per un debutto:
la pièce “Amici” di Nino Romeo (premio Candoni 2001) per il fiammante Camera
Teatro Studio, il nuovo e raccolto spazio scenico che lo storico Gruppo Iarba ha
appena inaugurato proprio con il lavoro del drammaturgo e regista catanese.
Mescere, insieme a due bicchieri di vino buono, conversazioni e confidenze;
ragionare sulle speranze vane, piangere sui dolori quotidiani, mescolare la
rabbia e la gioia lungo la storia di due vite, raccogliendo i frammenti che
gliene restituisce il tempo: la parabola esistenziale di una amicizia, dunque.
Da un lato il proletario Turi, dall’altro il più alto borghese Salvo, più
probabilmente le due anime dello stesso autore/attore, che mettono sul
ring-scena la loro lotta (di classe), analizzano i torti dei padri, consumano
l’ennesimo omicidio edipico scontando le loro insufficienze di figli, sfogliano
l’atlante delle loro in/certezze e dei loro ricordi, fanno soprattutto ideologia
anatomizzando quella delle rispettive famiglie.
Le sei gradazioni di questo profondissimo legame, che si dipana dai diciott’anni
fino alla piena maturità, corrispondono alle sei sequenze in cui “Amici” si
struttura, introdotte ciascuna dalla decantazione delle qualità di un vino: così
attraverso gli odori acuminati di un prosecco o di un rosso loquace fino alle
pastosità languide di un marsala o di un “picolit” eccessivo che lo stesso Nino
Romeo compagno di viaggio dei due protagonisti, attore più sommelier che
sacerdote, offre nel corso di questo rito-spettacolo: un sacrificio laico in cui
l’assaggio e la mescita pare però pretestuosa, forse paradossalmente annacquante
(“Amici” sarebbe certamente in grado di sostenersi dal punto di vista
drammaturgico senza la presenza e la celebrazione delle peculiarità
organolettiche dei vini). A modulare le sequenze e gli umori cangianti dei due
protagonisti nel tempo le musiche dolenti di De Andrè, intrecciate a quelle
originali di Franco Lazzaro in quella che dovrebbe funzionare come una
personalissima ma atipica Spoon river (non a caso a E. L. Master, uno dei suoi
autori preferiti insieme ai maledetti francesi d’ogni tempo, il cantautore
genovese aveva dedicato l’album Non al denaro né all’amore né al cielo). In
questa sorta di agnizione allo specchio di quest’anima divisa in tre, l’unico
punto d’incontro è costituito dal vernacolo, vissuto come linguaggio della
verità e della schiettezza, capace di svuotare il codice sofisticato della loro
ideologia, se non addirittura di annullarla: ed il “mistilinguismo” che è certo
l’elemento più notevole della rappresentazione di Nino Romeo, assolve
egregiamente non solo alla funzione connotativa dei protagonisti ma nello stesso
tempo si incarica di aprire squarci notevoli lungo la rappresentazione.
In un procedere non sempre serrato e lineare il tempo peggiora i loro difetti,
incattivisce Salvo e Turi, li costringe dalle altezze dell’engagement politico
alla più prosaica fenomenologia del sesso e delle sue epifanie senili: in tutti
i loro “dopo” non funziona più nulla. Perciò alla fine - citiamo De Andrè - non
pare possibile crederli assolti: “solo il paradosso fra noi”. Piuttosto ci preme
sottolinearne, oltre alla convincente e faticosa prova di Fiorenzo Fiorito
(Salvo) e Pietro Montandon (Turi), le qualità drammaturgiche e registiche di
“Amici”: dalla valenza simbolica della s/vestizione che la percorre tutta e
dell’acqua, con la quale, nel finale, i due amici si introducono alla morte per
celebrarne però e ricordarne una terza: quella dell’amico suicida Tatò –
ennesima variante di Salvatore – svelato poi nelle terza e allusiva presenza in
scena.
Giuseppe Condorelli