La lingua-canto di Enzo Moscato.

Al Camera Teatro Studio straordinaria performance di Enzo Moscato.

“Cantare è un
verbo a sé”. Lui, Enzo Moscato, il fool, il buffone, il pierrot flaneur, la
maschera, ora nostalgica e rabbiosa, ora sanguigna e trasognata - certo uno dei
maggiori esponenti della nuova drammaturgia partenopea (ve lo ricordate in Morte
di un matematico napoletano
di Mario Martone?) - lo sottolinea lungo tutti i
cinquantacinque minuti del suo densissimo “Cantà”, lo spettacolo che ha
presentato sui legni del Camera Teatro Studio di viale Mario Rapisarda. Non
semplicemente canzoni, piuttosto “esitazioni, schianti del cuore" in
musica. Quest'anima che canta struttura infatti la sua epifania come una
modernissima Vita Nuova – qui, da intendersi "rinnovata dal canto"
– ogni singolo brano preceduto da un intervento esplicativo, in uno slalom
serrato di citazioni, tra Brecht e Kleist, Apollinaire e Alfonso Gatto, Cesare
Viviani e Anna Maria Ortese, che gli conferiscono un indubbio spessore e sapore
di laboratoriale "teatro di poesia". Ma "Cantà" è anche
una performance di gesti, di sguardi, di cenni (tutti materiali linguistici per
Moscato, si intende) in cui la voce è mezzo, il testo strumento “per prendere
il tempo all’amo”, per raggirare il vuoto. E senza centro appare la
"cantata" di Enzo Moscato: in eterna "peregrinatio" da un
capo all'altro della sua Napoli - da
sempre radice e matrice - da un luogo all'altro
del Mediterraneo, da un
rumore all'altro degli stessi continenti che la circondano, Africa
compresa.
In questa “contaminatio” nella quale lo chansonnier Moscato
rivisita tutti i generi (anche i cosiddetti "leggeri") senza
privilegiarne alcuno - il melodramma ed il cabaret, la sceneggiata e la rivista,
bossa nova inclusa; l’unico denominatore è la Linguae, cioè quella che lo
stesso Moscato ha definito "la
grande Lingua Scenica Napoletana".
Il suo antilinguaggio è testo,
espressione, sostanza assai più di una teoria molto meno di una filosofia:
"la mia Lingua teatrale - aveva
dichiarato - è un misto multisonoro e ritmico di napoletano e di altri idiomi
italiano, francese, tedesco e spagnolo, greco, latino, saraceno...- un po' è
inventata, artificiale, costruita "sub vitro" come in un’officina
alchemica, privata e segretissima, un po' è il ricalco esagerato, iperbolico,
ridondante, del caos multietnico-poliglottico che ci gira, ai tempi nostri,
attorno”.
Tra le note solitarie di un pianoforte o di un violoncello,
cullato da quelle calde di una fisarmonica e dei mandolini - lo stesso omaggio
al "don Raffaè" di De Andrè non è mera citazione ma splendida
reinterpretazione ad una ottava superiore) – Moscato esibisce la sua
ossimorica concezione del mondo. Se tutto è teatro (ed il suo Teatro è tutto)
la scena stessa, friabile come il linguaggio e come tale agìta e vissuta, si
distrugge, rovina su se stessa, si svela alla fine finzione di cartapesta (ma
anche la pagina è scena per Moscato): solo la voce rimane sul silenzio, a volo
rado, infinita sul vuoto.

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