La Cina, Misterbianco, i Manganeddi e la "via della seta"

Angelo BattiatoLa nostra storia comincia… dalla lontana Cina! La lavorazione della seta, infatti, affonda le radici nella Cina dei primi secoli dell’era Cristiana, dove il paese dei mandarini, deteneva il primato mondiale della produzione del pregiato tessuto.

E ancora ricordiamo, quasi con tenerezza, la storiella appresa sui banchi delle elementari della proverbiale “gelosia” dei cinesi per la seta, gabbata, però, da alcuni monaci bizantini che, di ritorno a Costantinopoli, nascosero nei propri bastoni di viaggio alcune larve del baco. Da lì, attorno all’anno 1000, la produzione della seta giunse in Italia, assieme alla coltivazione del gelso bianco, le cui foglie costituivano il principale nutrimento del baco da seta.

Il prezioso tessuto arrivava in Italia e, quindi, in Europa attraverso la “via della seta”, descritta successivamente da Marco Polo che, partendo dalle province cinesi di Kansu e Shensi, veniva percorsa dalle carovane che attraversavano il deserto del Gobi, il Turkestan, l’Iran, fino ad arrivare in Anatolia. L’allevamento del baco e la produzione della seta si diffusero rapidamente in Italia, nel sud della Penisola, segnatamente in Calabria dove costituì per secoli la principale risorsa dell’economia locale. In Sicilia, per molto tempo, il monopolio della seta venne gestito da commercianti ebrei, mentre a Palermo – principale centro isolano di produzione – il lavoro veniva svolto da manodopera proveniente da Corinto. Ben presto anche a Messina (prima tra le città siciliane per importanza politica, economica e commerciale) si sviluppò l’attività serica.

Nel 1591 il napoletano Alfonso Crivella, giunto in Sicilia per un’ispezione, notò che “il Val Demone più dell’altri Valli, et in particolare la città di Messina e suoi Casali sono abbondantissimi di seta”, e aggiunse, tra l’altro, che nella città dello Stretto “vi è concorso grande de fuorastieri, mercanti et negotianti, per essere il capo del mare de Levante”. Messina, che già nel ‘400 si svolgeva una rinomata “fiera della seta”, da importante centro di produzione divenne in breve anche luogo di intermediazione degli affari tra stranieri (spagnoli, francesi, inglesi, olandesi, genovesi, pisani, finanche africani) e calabresi (in Calabria, Messina ha addirittura un proprio console). E verso i setaioli messinesi, quindi, si rivolse l’attenzione di altre città siciliane, che colsero l’importanza del “filo d’oro” per la notevole ricaduta economica del settore serico e per “l’indotto” che creava; maestri setaioli messinesi, infatti, mediante esenzioni fiscali e anticipi in denaro, vennero sollecitati dall’università di Trapani a trasferirsi in quella città sul finire del XVI secolo per impiantarvi i telai per tessere velluti e terzanelli (A. Baviera Albanese, “In Sicilia nel secolo XVI: verso una rivoluzione industriale?”, 1974).

Negli stessi anni l’università di Siracusa stipulò contratti con tessitori messinesi per diffondere l’arte in città (F. Gallo, “Le gabelle e le mete dell’università di Siracusa”, 1990). E la presenza a Messina del più importante e “vivace” porto del Mediterraneo centrale rese la città punto di concentramento di tutti i traffici serici. Nel XVI secolo la città compì ogni sforzo per mantenere la posizione di privilegio nell’industria serica: nel 1562, il parlamento siciliano stabilì un’imposta su tutta la seta greggia siciliana, ma il governo cittadino, nel 1591, sborsando 50.000 scudi ne ottenne l’abolizione; in più venne accordato il privilegio che tutta la seta della Sicilia orientale venisse esportata solo da Messina (C. Giardina, “Capitoli e privilegi di Messina”, 1937), con l’istituzione di un autentico monopolio; in sostanza, la città ottenne che tutte le sete prodotte in Sicilia tra Termini e Siracusa non potessero essere esportate se non dal suo porto e da qui convogliate verso Genova, Livorno, Venezia, Bologna, la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra e naturalmente la Spagna.

Nel 1591 Filippo II concesse alla città dello Stretto tale beneficio dietro il pagamento di 583.333 scudi, ad esso si aggiunsero altre concessioni, come l’introduzione di gabelle varie e, soprattutto, la conferma del privilegio di ospitare il viceré per la metà del suo mandato. Il privilegio del 1591 rappresentò, tuttavia, anche l’ultimo atto di un processo quasi secolare che aveva reso la città “egemone nel commercio di esportazione” e al contempo “una onerosa ipoteca a difesa di un settore”. All’eccellente qualità del prodotto siciliano corrispondeva, come sempre, una debole capacità di commercializzazione sul mercato internazionale. Una caratteristica, questa, che ha penalizzato, fino ai giorni nostri, l’intero comparto agricolo isolano e, in parte, del Mezzogiorno italiano. In quei tempi la coltura del gelso e la filatura della seta si erano diffuse ad est come ad ovest nell’isola: a Noto, Caltagirone, Catania, Misterbianco, Acireale, Siracusa, Trapani, oltre che nel messinese, interessando un po’ dovunque le città, ma non coinvolgendo le forze produttive della campagna, come avveniva in altre aree della penisola.

Il commercio in Sicilia era regolato dai Consolati della seta che erano rappresentati a Palermo, a Messina e a Catania. Nel gennaio del 1776 Acireale si candidò a divenire Consolato per manifatturare in proprio la seta, prodotta in gran parte nel territorio dei Manganelli. Ma le tre città, forti degli antichi privilegi e delle finanze a disposizione, si opposero risolutamente. Il redditizio oligopolio si perpetuò così, tranne alcune concessioni alla “coraggiosa” e operosa Acireale, fino al 1781, quando re Ferdinando III di Borbone dispose che ogni città potesse tenere liberamente filatoi, telai e quant’altro necessario alla lavorazione della seta. Sul finire del XVIII secolo, pur continuando a prosperare nel sud d’Italia, l’industria serica decadde nell’isola. Le manifatture, danneggiate dal blocco continentale voluto da Napoleone, ma anche da un’incapacità a creare ammodernamenti, ripresero nuovo slancio nei decenni successivi dell’Ottocento. Infatti, fino agli anni ‘30, nella sola città di Catania lavoravano dai 15 ai 20 mila operai, poco meno del 50% dell’intera popolazione, che allora non superava i 50.000 abitanti.

In quegli anni, distribuiti nelle varie filande, operavano a pieno ritmo circa 1170 telai di cui solo 170 alla Jacquard (il tipo più moderno). Dopo il 1850 la sericoltura perse ogni valenza economica e commerciale, fino a scomparire del tutto. Anche a Misterbianco, in passato, vi era stata una lunga tradizione serica, iniziata già nell’antico Casale di Monasterium Album, distrutto dalla lava nel 1669, e continuata nel nuovo paese, dove in molte case, anche all’interno del tessuto urbano, vi era la presenza degli alberi di gelsi, necessari per la produzione dei bozzoli da cui poi veniva estratta la seta. E la presenza delle botteghe per l’estrazione e la lavorazione della seta era concentrata in una circoscritta zona del paese: nel quartiere de’ “Manganeddi” (nome derivante dal “mangano”, lo strumento adoperato per l’estrazione e la lavorazione della seta).

Questa localizzazione aveva una ben precisa ragione economico-sociale: evitare la concorrenza tra i vari produttori locali, stipulando dei precisi accordi di categoria, ed esercitare, da una posizione unitaria, una sorta di oligopolio utile per la crescita economica e il rafforzamento della capacità produttiva dell’interno comparto economico. Ed infatti i maestri manganari erano una vera potenza economica all’interno della società misterbianchese d’allora, esercitavano un’indiscussa supremazia politico-amministrativa, facendo parte in maniera stabile del ceto dirigente della città. E, come viene citato in un antico inventario risalente al 1790, i “maestri manganelloti” avevano finanche una loro varetta (candelora), per la celebrazione dei festeggiamenti in onore del Patrono, Sant’Antonio Abate. Oggi, infine,… a proposito di seta, i maggiori produttori del prezioso e ricercato tessuto sono tornati ad essere… i cinesi, che ormai dominano i mercati mondiali… non di solo seta! D’altronde si sa,… chi di seta ferisce, di seta perisce!

Angelo Battiato

tags: