"Filumena Marturano": non è facile non far rimpiangere Edoardo

Ha esordito sui legni del Verga il dramma edordiano con la regia di Cristina Pezzoli. Nei panni dell'energica napoletana una convincente Isa Danieli.

La dialettica perfettamente
“hegeliana” della rappresentazione, articolata nella tesi scenica
(dell’ira di Domenico Soriano nel “ring” iniziale) dell’antitesi (la
casa-“tribunale”) e della sintesi (il “locus amoenus” finale di una
terrazza sul mare) non intacca apparentemente la “Filumena Marturano” di
Edoardo De Filippo – almeno così come l’ha congegnata la regista Cristina
Pezzoli – che la Compagnia “Gli Ipocriti” ha presentato sui legni dello
Stabile cittadino. Nella rappresentazione, che appartiene al ciclo dei drammi de
“giorni dispari” (e che indirettamente richiama la vicenda familiare dello
stesso autore), tutto comincia con una “finzione” - cioè nel modo più
teatrale possibile - (Filumena, ex prostituta, si fa sposare dal suo convivente
fingendosi moribonda nella speranza di dare un nome ai suoi tre figli
illegittimi mantenuti proprio col denaro a lui sottratto) e tutto si chiude,
dopo la penosa ricostruzione dei reciproci rancori, con l’altra finzione
“necessaria” del matrimonio (“all’italiana” avrebbe intuito Vittorio
De Sica) che unisce finalmente Filomena a Domenico Soriano, ormai “mite, quasi
umile”. Una unione pirandelliana attraverso la quale si afferma ancora una
volta l’intero leit-motiv della piece: “E’ figlie so’
figlie…e so’ tutte eguale”. Con la forza delle sue argomentazioni e della
potenza con cui le sostiene (una Ghismunda boccaccesca post litteram,
quasi) Filomena, ex prostituta, mula giubba, privata anche della
soddisfazione del pianto per i venticinque anni di tormentata convivenza con il
dolciere-industriale, solo nella più luminosa sequenza finale - che finalmente
altera un po’ l’aura claustrofobica dell’ambientazione generale - troverà
pure il tempo di permettersi la liberatoria “bellezza delle lacrime”. In uno
scorrere meccanico di quadri scenici tra il gotico ed il kafkiano e nonostante
la presunta fedeltà al congegno teatrale, incrina però lo spettacolo una regia
che ha eccessivamente dilatato i tempi e congelato le atmosfere. Insomma in
questa “Filumena” (la stessa che ha calcato i legni del Biondo palermitano
di una scorsa stagione) è venuta meno la dimensione alchemica propria del
teatro eduardiano ma senza i meccanismi di sostituzione (si pensi cosa ha fatto
per esempio Martone dei suoni della città nelle sue riduzioni teatrali):
insomma una rappresentazione un pò troppo anonima e stiracchiata cui non
servono affatto i quattro guitti che, a sipario non ancora aperto, ne rievocano
un colore che sa di polverosa retorica. Se Isa Danieli nei panni di Filumena
Marturano distilla una interpretazione assai aderente e di tragica potenza
espressiva senza mai trasformarla in inutile virtuosismo, Antonio Casagrande
appare certo meno disinvolto nel personaggio di Domenico Soriano, il cui piglio
appare a volte eccessivamente affievolito. Il “coro” di tutti altri
interpreti risulta all’altezza della situazione.

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