Antonella Steni e Gianni Musy allo Stabile di Catania

Una terza età brillante ma grigia...Ottima prova intepretativa di una commedia senza mordente di Giuseppe Manfridi

C’è un
Teatro della Terra di Mezzo (ci si consenta lo sconfinamento improprio) di cui
non si può dire né male né bene. “Grigio brillante” che lo Stabile di
Catania ha presentato, terzo appuntamento della rassegna fuoriporta
“Nuovoteatro” sui legni del Musco maculato di alcuni vuoti, pare appartenere
a questa ideale geografia. La commedia (con scaglie musicali) del pur bravo
Giuseppe Manfridi è infatti una esercitazione teatrale, mero
“divertissement” in mano a consumati attori.  In un “parnaso d’arte drammatica”, convitto, o meglio,
casa di riposo, Clara, una “presunta prima della classe” inappuntabile nelle
citazioni - una Antonella Steny che presta la sua vitalità tanto al tip-tap
quanto agli scioglilingua - scopertasi in seguito solo con un repertorio
“stracolmo di cianfrusaglie” è avversa a Luigi, (Gianni Musy, il
pentito Buscetta nel “Giovanni Falcone” di Giuseppe Ferrara), ex attore
avvezzo a contare le dipartite illustri della casa confrontandole con la miseria
delle nuove acquisizioni, smemorato arrogante, ombroso gigione narcisisticamente
in procinto di allestire uno spettacolo per gli ospiti forzati della pensione.
Dopo le prime velenose diffidenze insieme cominciano a spulciare i bei tempi
andati, infarcendoli di agrodolci riflessioni pirandelliane o giù di lì,
sterzando lungo personali scantonamenti esistenziali, entrambi sostenuti dal
comune denominatore della passione per il teatro. In una resa drammaturgica
piuttosto stitica emerge solo a tratti l’idea
dello spettacolo (nello spettacolo) e della “mise en abime” della condizione
artistica. La commedia diventa una
occasione (un po’ spenta) per
sperimentare la vecchiaia, per mettersi alla prova come esseri umani
individualisti ed eccentrici, a confronto con le proprie ed altrui necessità,
con il proprio dolore innominabile. Perché di tanta carne al fuoco “Grigio
brillante” ci regala troppi shakeraggi scompagnati, tanti da risultare
eccessiva, specie in una seconda parte (ancora meno fluida della prima) nella
quale, tra sentimenti sboccianti e orizzonti di prostata, fra tristezze senili e
progetti naufragati, si sfiora pure la melensaggine pateticamente “larmoyant”;
e tutto ciò nonostante gli svolazzi nella rivista, i calembour e
le poesiole in bilico tra Marcello Marchesi, 
Flaiano e Bergonzoni. Questa sorta di atipica “rivista da camera” insomma non decolla come, nel maggio
scorso
sullo stesso palco del Verga, aveva fatto
“Quartetto” (da Harwood) che

l’intelligente adattamento di Antonia Brancati aveva trasformato in “Bella
figlia dell'amore”, e insieme al quale
“Le
ultime lune” di Furio Bordon,  avevano
chiuso un interessantissimo dittico incentrato sulla vecchiaia. A meno di un
anno “Grigio Brillante” è solo una “variazione sul tema”; e funziona
come un esercizio di bella calligrafia interpretativa. A dare consistenza al suo
carattere eccessivamente “leggero” non bastano le prove più che convincenti
degli interpreti (la Steny è ancora quasi quasi quella di
Tre e simpatia), tantomeno lo spazio “chiuso” della scena-studiolo, né giovano a
renderlo più intrigante i commenti musicali di Dimitri Scarlato. Brillante sì,
ma inesorabilmente

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